La gentilezza è l’atto più politico che ci è rimasto

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C’è una frase di Mattia Torre che non smette di lavorare dentro: “La gentilezza è l’atto più politico che ci è rimasto.”
Detta così, sembra una carezza. In realtà è una lama affilata. Perché Torre non parlava di buone maniere, ma di potere.
La gentilezza, quando tutto si incattivisce, non è un gesto neutro. È un atto di resistenza.
Viviamo in tempi in cui il dibattito pubblico si è fatto rissa. Le parole servono più a colpire che a capire. I social hanno normalizzato l’insulto come scorciatoia. In questa palude, la gentilezza non è zucchero: è scelta. Chi la esercita rinuncia alla semplificazione brutale e sceglie la complessità, anche quando costa fatica.
Non significa essere arrendevoli. Significa restare umani in mezzo al rumore.
La gentilezza è politica perché agisce là dove le leggi non arrivano: nelle relazioni. È un “ti vedo” rivolto a chi non ha voce, a chi è messo all’angolo. È sedersi accanto a qualcuno invece di alzare muri. È cedere il passo quando la tentazione sarebbe spingere. È dare tempo a un pensiero diverso dal proprio.
Piccoli gesti, certo. Ma i sistemi cambiano sempre da lì: da una cultura quotidiana che non concede terreno al disprezzo.
C’è poi un’altra cosa. La gentilezza, a differenza dell’odio, non ha bisogno di folle per esistere. Può nascere in silenzio e propagarsi senza clamore. Non è spettacolare, e proprio per questo è difficile da strumentalizzare. Non serve un palco per praticarla: basta un autobus, una bacheca, una porta aperta.
Chi sceglie la gentilezza non abdica alla politica, la riporta a misura d’uomo.
In un Paese dove ogni frattura sembra insanabile — sociale, generazionale, culturale — la gentilezza è un collante sottovalutato. Non salva il mondo, ma rallenta la sua frantumazione. È uno spazio di respiro.
Per questo è così profondamente politica: perché toglie potere all’arroganza e restituisce dignità allo scambio.
Siamo abituati a pensare alla politica come a un’arena di leggi, istituzioni, grandi strategie. Ma prima ancora, la politica è convivenza. E la convivenza si costruisce con gesti minimi e ostinati.
Un grazie che non è di circostanza. Un ascolto che non cerca la replica. Un disaccordo che non umilia.
È da qui che può ripartire un discorso pubblico degno di questo nome.