Dorothee Elmiger. La letteratura che non consola

La gentilezza è l’atto più politico che ci è rimasto
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Gianni Rodari
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Letteratura · 23 Ottobre 2025 · ⏱ 3 min · ~538 parole

Ogni tanto, in mezzo a una Buchmesse affollata di cataloghi, sorrisi forzati e storytelling industriale, succede qualcosa che sposta l’aria. Non serve un applauso. Basta un nome pronunciato sottovoce con rispetto. Quest’anno quel nome è Dorothee Elmiger.

Chi è, per chi non l’avesse ancora incrociata: una scrittrice svizzera, poco più che quarantenne, che scrive come se la lingua fosse materia viva e pericolosa. Non “racconta storie” nel senso comodo del termine. Costruisce paesaggi di domande. E questo, oggi, è già un atto politico.

La sua scrittura non ti prende per mano

Nei suoi libri non troverete trame dritte, personaggi simpatici e finali ordinati. Troverete invece voci sovrapposte, documenti, archivi, autobiografia intrecciata a storia collettiva, e una lingua che non teme la lentezza. “Aus der Zuckerfabrik” — il romanzo che le è valso il Deutscher Buchpreis 2025 — parte da una fabbrica di zucchero, ma si apre su un secolo di colonie, sfruttamento, denaro, desideri e dolcezza amara.

Elmiger scava negli strati invisibili delle cose quotidiane. Dietro ogni gesto banale — una tazza di tè, una confezione di zucchero, una città europea pulita e ordinata — c’è una storia di potere che non è stata raccontata. Lei la racconta. O meglio: la fa parlare.

Leggerla è un esercizio di scomodità

No, non è una lettura facile. Ed è proprio per questo che serve. In un tempo in cui tutto ci spinge a semplificare, Dorothee Elmiger costringe a tenere insieme le contraddizioni: colonie e supermercati, archivi e intimità, desiderio e vergogna.

La sua forza non è gridata. È ostinata. Non ci dice cosa pensare, ma ci impedisce di fingere di non sapere. In questo è sorella di altre scritture radicali europee — da Sebald a Jenny Erpenbeck — che rifiutano la scorciatoia dell’intrattenimento e tornano a fare della pagina un terreno minato.

Perché riguarda anche noi

Siamo un Paese che ha un rapporto complicato con la propria memoria coloniale, con i meccanismi di potere invisibili e con tutto ciò che non entra nei manuali scolastici. Le sue pagine parlano anche a noi, perché interrogano non solo ciò che è stato, ma come scegliamo di raccontarlo o di tacerlo.

Elmiger è importante perché non ci permette di sentirci spettatori neutrali. Ci coinvolge come complici, anche quando non lo vorremmo. Leggerla significa accettare di perdere l’equilibrio, almeno per un po’.

Un lavoro da fare, non da consumare

La letteratura di Dorothee Elmiger non si “divora” in due sere con il tè caldo. Si legge a strati. Si mette giù. Si riprende. Si discute. È fatta per entrare in scuole, biblioteche, circoli di lettura, festival che abbiano il coraggio di parlare di cose difficili senza slogan.

Chi cerca una scrittura piana, la troverà respingente. Chi accetta la fatica, la troverà liberatoria.

Perché oggi conta

In un’Europa che si illude di difendere la libertà con le parole giuste ma evita le domande scomode, scrittrici come Elmiger ci ricordano che la libertà è anche disordine, scavo, dubbio. Leggerla significa rinunciare alla consolazione. Ed è esattamente questo che la rende necessaria.

Forse per questo il suo nome è uscito dalla Buchmesse non come una moda, ma come un eco sottile e insistente. Un invito a non restare fermi nei confini comodi della nostra memoria corta.