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Il Racconto del sabato · 25 Ottobre 2025 · ⏱ 7 min · ~1500 parole

La stazione di servizio sembrava un acquario senz’acqua: vetri sporchi, una pianta agonizzante, il sole che si divertiva a friggere le ombre. Io ero lì per gonfiare una ruota di pensieri, niente di grave, solo quella pressione bassa che viene quando leggi i giornali. Poi ho sentito il rumore. Non un rombo: una specie di tosse meccanica ostinata, come se un frigorifero avesse deciso di sognare l’oceano.

È arrivata una moto che somigliava alla Poderosa dei racconti, solo meno gloriosa e più di fortuna. Al manubrio, uno con la barba giovane e gli occhi che avevano visto la notte e le sue luci. Camicia chiara, giacca leggera senza mostrine. Sulla spalla, una toppa sbiadita che poteva essere qualsiasi cosa: un continente, un cane, un fulmine.

— Aria? — ha detto, come se fosse la parola più importante del mondo.

Gli ho passato l’attacco del compressore. Le sue mani erano pulite nel modo in cui si sono già sporcate tante volte. Ha controllato i bar come si controlla una promessa.

— Ti somiglia, eh — mi è scappato.

Lui ha sorriso come fanno quelli che conoscono l’equivoco e lo lasciano vivere.

— A chi?

— A un’idea, diciamo.

— Le idee non pagano la benzina — ha aggiunto, e io ho fatto un cenno al benzinaio, che stava leggendo il retro di un pacchetto di patatine come se fosse Tolstoj.

Il serbatoio beveva e il deserto odorava di pomeriggio. Ho guardato la sella. C’era posto.

— Fino al bivio? — ho detto.

— Fino al bivio.

Siamo partiti così, una parentesi tra due cartelli scoloriti. Io dietro, il casco troppo largo, gli insetti che ti scelgono sempre come referendum vivente. La strada tirava una riga verso un orizzonte paziente. Ogni tanto lui cambiava marcia con la precisione di chi ha sbagliato spesso.

— Tu da che parte stai? — ha chiesto senza voltarsi.

— Dalla parte che non fa titoli a caratteri cubitali. E tu?

— Dalla parte che non può permettersi di stare ferma.
Un silenzio. Poi ha aggiunto: — Parlano di muri come se fossero mobili da spostare. Parlano di sicurezza come se avesse un prezzo al chilo. Parlano di leader come se fossero stagioni: “adesso piove, ci adeguiamo”. Ma la pioggia non firma decreti.

— E tu cosa faresti con i muri, visto che è tornato di moda prometterli?

— Li misurerei prima. Poi chiederei alle persone che vivono di qua e di là se è un muro che serve o un alibi che consola. I muri sono utili solo se non impediscono alle ambulanze di passare.

— E i tweet?

— Hanno la velocità delle pallottole e la memoria dei sogni. — Ha riso piano. — Non è un problema di 280 caratteri. È un problema di 2: la coppia “noi-loro”.

Un rettilineo lunghissimo, caldo come una decisione presa troppo presto. Potevo dire “Trump” e farla finita, ma ho scelto di girarci attorno, come si fa con un cane che non conosci.

— A me sembra uno show senza pubblicità, un comizio che non finisce mai — ho detto. — Slogan elastici, promesse che non si rompono perché non toccano terra. Gente che applaude per stanchezza.

— La stanchezza è propaganda — ha risposto. — Lavori sullo scoramento, vendi scorciatoie. Funziona sempre.
Ha cambiato marcia, la moto ha tossito e poi si è rasserenata. — Il problema non è lo showman. È il pubblico quando decide che la politica è un talent. Il voto come televoto, l’avversario come eliminato.

— Però la gente ha paure vere — ho detto. — Lavoro, confini, prezzi. Non puoi archiviare tutto come “massa manipolata”.

— Infatti. — Ha sbarcato un sospiro. — La differenza sta nel metodo. Puoi provare a costruire una clinica in un villaggio, o puoi dichiarare che il villaggio è un’invenzione dei giornalisti. Una strada chiede tempo e mani. L’altra chiede un microfono.

Ho guardato la sua nuca e mi è venuta voglia di chiedergli il certificato di nascita. Mi sono morso la lingua. A volte è più interessante non sapere.

Abbiamo preso una curva larga, come una virgola nella pagina. Un cartello storto diceva “Bivio in 2 km”, ma sembrava scritto a matita.

— Quanto credi al consenso? — ho buttato lì. — Perché a me pare la nuova religione civile: alzate di mano, sondaggi, like. “Dunque sono”.

— Il consenso è un termometro, non una cura. Se rompi il termometro e non hai la febbre, sei guaritissimo. — Ha abbassato un poco la visiera. — La domanda vera è chi paga il conto delle frasi facili. Di solito chi non le ha pronunciate.

— E quando sbagli? — ho chiesto. — Cosa fai, chiedi scusa?

— Se non chiedi scusa, almeno cambia strada.
Un colpo di vento. La moto ha ondeggiato. — Chiedere scusa in politica è come tirare il freno a mano: utile se sai dove fermarti, disastroso se lo fai in salita.

L’asfalto ha perso sicurezza e si è fatto ghiaia. Lui ha rallentato fino al rumore leggero dei sassolini contro il telaio. Ci siamo fermati in un’area spoglia: un tavolo di cemento, un cestino, un sole più grande del necessario. Lui ha tirato fuori un termos ammaccato. Caffè. Di quelli che portano dentro la notte intera.

— Ti posso fare una domanda? — ho provato.

— Fallo piano.

— Tu sei chi penso?

Ha guardato il deserto, poi me. Non c’era spavalderia, solo un’ombra dentro una risata.

— Sono qualcuno. Ti basta?

— Oggi sì.

— Allora parliamo di adesso — ha detto, e il tono è diventato più corto. — Se la giustizia è una parola che entra nei discorsi solo come effetto retorico, allora ogni leader che parla di ordine vince prima ancora di iniziare. Perché l’ordine è misurabile, la giustizia no. L’ordine lo mostri in un video. La giustizia è una cartella clinica che non fa views.

— Eppure l’ordine serve — ho detto. — Anche nei villaggi, nelle cliniche, nelle frontiere. Serve per non fare male senza volerlo.

— Serve, ma non cura. — Ha versato altro caffè. — Io sono per operare quando si può e tamponare quando si deve. Ma c’è chi preferisce fasciare la telecamera e dire che il paziente è guarito.

— Quindi niente muri, niente show, niente tweet: solo ambulatori e piedi sporchi?

— No, non fare il romantico. — Mi ha passato la tazza. — Servono leggi che non cambino umore alle sei del pomeriggio. Servono media che non confondano panico e notizia. Servono cittadini che non regalano la loro noia al primo venditore di risposte. E servono viaggi. Non quelli in aereo con il finestrino piccolo: quelli in cui capisci che la geografia non vota ma plasma il voto.

— E i leader?

— Che tengano il conto delle conseguenze. Che ricordino i nomi, non solo i numeri. Che accettino di perdere. Un leader che non contempla la sconfitta è come un medico allergico alla diagnosi.

Ha infilato il tappo al termos con la cura di chi sa che la caffeina non risolve i regimi. Poi si è alzato. La toppa sulla spalla, da vicino, sembrava un’isola che scappa.

— Sai qual è l’errore più comune? — ha detto.

— Uno solo?

— Credere che il cinismo protegga dal dolore. In realtà lo anticipa. Ti abitui a soffrire prima ancora che serva. Così quando arriva l’ingiustizia, hai già speso tutte le medicine.

— E l’ingenuità?

— È un attrezzo. Usi quello giusto al momento giusto. Ci sono giorni in cui devi credere per forza. Altrimenti non parti.

Siamo tornati alla moto. Ho fatto per salire. Lui ha alzato la mano, tre dita. Un saluto essenziale.

— Fin qui, amico. Il bivio è tuo.

— E tu?

— Io vado dove non c’è strada. Altrimenti è solo traffico.

Il casco mi è rimasto in mano qualche secondo di troppo. Ho pensato di dire il nome, quello che tutti avrebbero detto. Non l’ho fatto. L’identità è un servizio che a volte non conviene attivare.

La moto è partita con quel suo rumore da frigorifero romantico. Ha preso la riga di ghiaia e poi l’ha persa, come si perde un’abitudine. Io sono rimasto fermo a decidere che tipo di cittadino volevo essere nella prossima ora. Non un eroe, non un commentatore. Uno che, al primo muro, cerca la porta dell’ambulanza.

Quando mi sono girato, ho visto il cartello arrugginito. Non diceva “stop”, non diceva “pericolo”. Solo tre puntini, dipinti a vernice nera da una mano sconosciuta:

Ho rimesso il casco, troppo largo come le frasi generiche, e ho scelto la strada che non stava ancora nella mappa. Non per spavalderia. Per prova.

Il sole ha abbassato la voce. La pianta nell’acquario, da lontano, sembrava stare un filo meglio. Forse era un effetto ottico. O forse la verità era ancora in viaggio, con una toppa sulla spalla e un termos che sapeva aspettare.

Armando

Disclaimer (non si sa mai…)

Woody è un personaggio di finzione, il mio alter ego narrativo. Si ispira nello stile e nelle atmosfere al suo omonimo americano, senza alcuna affiliazione, approvazione o rapporto. I dialoghi e le situazioni sono inventati o rielaborati a fini narrativi; eventuali riferimenti a persone o fatti reali servono al racconto e non intendono descriverli fedelmente. Marchi e nomi citati appartengono ai rispettivi titolari.

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