Quando sostituii mio cugino Isaac alle scale mobili (e al teleprompter) dell’ONU

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Isaac presidia le scale mobili dell’ONU dal 1998. Le conosce per nome: “Quella verso l’Assemblea Generale è vanitosa: accorcia i gradini davanti ai capi di Stato.” Io l’ho sempre preso in giro. Poi, un giovedì, mi chiama: allergia, febbre, voce nasale. “Copri tu. Oggi c’è uno che fa vento coi capelli.”
Arrivo con un badge provvisorio e due mansioni: badare alla scala e, per un curioso gioco di incastri, far scorrere il teleprompter. Il collega del prompter è a un bar mitzvah. Il mondo si regge su sostituzioni improbabili.

Dietro le quinte dell’ONU tutti parlano sottovoce. Anche gli attacchi d’asma sono diplomatici. Un macchinista mi fa un corso accelerato: “Regola uno: non far mai sentire a un leader che dipende da una macchina. Regola due: al prompter ascolta il respiro, non il testo.”
Annuisco come chi ha perso il respiro già da un pezzo.

La processione di delegazioni si muove tra bandiere stirate e profumi che costano quanto un’auto usata. A un tratto, l’aria cambia. Arriva l’onda. Telecamere, microfoni, giacche blu, spalle quadrate. Trump e la First Lady puntano la scala. Io sussurro alla mia vanitosa: per favore, oggi fai la brava. Lei fa un mezzo ronzìo, parte, e poi—clac. Si ferma. A metà rampa. Silenzio.
Per tre secondi lunghi come un’astensione, il palazzo intero trattiene il fiato. Un addetto all’impiantistica, rapido come un violinista nel pizzicato, libera il fungo d’emergenza. La scala riparte con la dignità di chi finge di non aver inciampato. Ho l’impressione che qualcuno della delegazione abbia sfiorato il pulsante. Nessuno dice “colpa mia”, perché le macchine non votano e quindi non sbagliano mai ufficialmente.

Il corteo arriva su. Io corro nella cabina del prompter. La signora dagli occhi antichi—mani piccole, nervose, da pianista—mi mormora: “Ricorda: inspira, aspetta. Espira, accompagna.”
Sì, ma il respiro di chi?

Entrano in aula. Il marmo verde del podio è pronto, lucido, quasi religioso. Io appoggio il pollice sul cursore del tempo. Lui attacca. E in quell’istante, sul vetro, il testo fa freeze. Lettere ferme. Un ghiacciaio.
Trump guarda in su, poi verso la sala, poi verso il destino. Dice che può parlare anche senza teleprompter, che così “si parla più dal cuore”. E aggiunge, chiaro, con quel mezzo sorriso da showman che sa masticare l’imprevisto: “Whoever is operating this teleprompter is in big trouble.”
Risatine in platea. La cabina dietro di me diventa una chiesa. Io sono l’accolito che ha fatto cadere il messale. Provo il soft reset: il testo riprende, a scatti. Alzo un millimetro la velocità, poi la riabbasso. Il pollice suda. Il cuore fa il metronomo, ma non il mio.

“Il potere è anche la cadenza con cui un’idea arriva al timpano.”

Il speech procede come un’orchestra che rientra dopo un black-out: violini pronti, ottoni un filo nervosi. Io tengo la rotta: quando sento la frase farsi coltello, allungo mezzo battito; quando vira verso l’iperbole, freno un pelo. Non per censurare. Per igiene del ritmo. In cabina mi chiedo quanta storia sia passata per colli di bottiglia così minuscoli: una pausa, una scala, un cursore.

Intanto nei corridoi corre la radio interna: l’ipotesi è che lo stop della scala sia stato un tocco involontario di qualcuno della stessa squadra incaricato di riprendere. Nessuno ama la parola “sabotaggio” finché non serve alla narrazione. E la narrazione, oggi, è un animale affamato.

A metà discorso, mentre lui affila una promessa che fa sudare i traduttori, il prompter ha un altro singhiozzo. Io trattengo il fiato. La signora pianista mi sfiora il gomito: “Lascia respirare la sala.” Lascio. La sala respira. È incredibile quanta politica ci sia in un secondo vuoto.

Finisce. Applausi a ventaglio: pieni, cortesi, di servizio. Le bandiere si ricompongono nei propri ematocriti. I corridoi riprendono a parlare con la loro grammatica di passi e tazzine. La scala—la mia vanitosa—riparte più morbida, come se avesse imparato il pudore.
Nel backstage incrocio un interprete armeno che sussurra: “Qui crediamo nelle parole, ma ogni giorno scopriamo che il ritmo decide il loro destino.”
“Sì,” dico, “e che le scale mobili non sono mai davvero neutrali.”

Restituisco il badge. Accendo il telefono: pioggia di commenti. C’è chi chiede indagini, chi vede complotti in ogni corrimano, chi fa satira con gusto da panetteria. Io torno a casa in metropolitana, che è una scala mobile orizzontale, e penso a Isaac. Gli telefono: racconto del fermo rampa, del prompter che si ghiaccia, della battuta sul “big trouble”. Lui ascolta e chiude con la sua massima preferita: “Nella vita tutto o scorre o si ferma. Il mestiere è capire quanto assecondare e quando resistere.”
Spengo la luce con un’idea semplice: la civiltà è un artigianato di dettagli. A volte la democrazia è la mano che sfiora il fungo d’emergenza—e poi sceglie di non premerlo.


Disclaimer (non si sa mai…)

Woody è un personaggio di finzione, il mio alter ego narrativo. Si ispira nello stile e nelle atmosfere al suo omonimo americano, senza alcuna affiliazione, approvazione o rapporto. I dialoghi e le situazioni sono inventati o rielaborati a fini narrativi; eventuali riferimenti a persone o fatti reali servono al racconto e non intendono descriverli fedelmente. Marchi e nomi citati appartengono ai rispettivi titolari.

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