La fotografia, per Lisetta Carmi, è stata un fuoco breve (1960–1978) che ha cambiato il nostro modo di guardare il lavoro, i corpi e le periferie morali d’Italia. Il resto della sua vita spiega quel fuoco: musica prima, spiritualità poi.
Come nasce / Come è stata scoperta
Quante vite bastano per raccontarne una? Nata a Genova nel 1924 in una famiglia ebraica, Carmi attraversa leggi razziali, studi di pianoforte, una carriera concertistica. Nel 1960 posa lo spartito e prende in mano una macchina fotografica. È un passaggio netto: dal suono all’immagine, ma con la stessa disciplina d’ascolto. Fotografa teatri, poi le persone e i lavori che la città non vede o non vuole vedere. Morirà a Cisternino nel luglio 2022, a 98 anni.
Sguardo e metodo
Umanistica, sì, ma alla lettera. Carmi non “ruba” scatti: entra, chiede, resta. La relazione precede la fotografia. Il suo metodo è semplice e radicale: togliere l’esotico, far posto all’altro, ascoltare le parole prima dei volti. Il tempo è lo strumento: ritorna nei luoghi, torna sulle stesse mani, sugli stessi gesti di fatica. Così l’immagine smette di essere eccezione e diventa prova di esistenza.
Serie / opere chiave
Nel 1964 realizza a Genova uno dei reportages più forti del dopoguerra sul lavoro portuale: le banchine, la “sala chiamata”, i corpi pressati dalla merce. Non c’è retorica, c’è attrito. È un racconto del lavoro come lo si sente nelle ossa, non nei comunicati.
L’altro pilastro è I travestiti (1962–1971; libro 1972): un lavoro pionieristico sulla comunità trans e travestita di Genova, costruito su fiducia, nomi propri, case, feste, strade. Le fotografie e il volume (con una nota di Elvio Fachinelli) rifiutano lo sguardo morboso e restituiscono dignità, normalità, desiderio. Oggi li leggiamo come un archivio essenziale della memoria LGBTQ+ italiana.

Ezra Pound (1966)
Una sequenza a parte merita l’incontro con Ezra Pound: Sant’Ambrogio, 11 febbraio 1966. Carmi arriva con un giornalista, bussa a una casa piccola; il poeta apre, non parla. In pochi minuti scatta una ventina di fotogrammi e ne ricava dodici ritratti: è una radiografia del silenzio più che un “ritratto d’autore”. Con quella serie vince l’edizione italiana del Premio Niépce; Umberto Eco, in giuria, dirà che quelle immagini dicono di Pound più di molti articoli. È fotografia che non spiega: ascolta, e rende visibile l’ombra.

Autoritratto / Io in campo
Carmi si mostra poco, ma sceglie molto. Nel 1976 incontra Haidakhan Babaji; nel 1979 fonda a Cisternino l’Ashram Bhole Baba. Da allora, la fotografia si ritira e resta una pratica di relazione trasformata: il corpo a corpo con la realtà diventa ricerca spirituale, comunitaria. È la stessa coerenza: dare casa a chi non ce l’ha, dare voce a chi non la trova.
Nodo etico
Come si fotografa l’intimità senza possederla? Con i Travestiti la domanda è frontale. Il rischio di spettacolarizzare esiste. Carmi lo aggira con la durata del rapporto, con la responsabilità del nome, con la restituzione: non mostra “un fenomeno”, sta con delle persone. La presenza di uno sguardo psicoanalitico nel libro segnala questo patto di cura, anche quando l’epoca non aveva il nostro vocabolario.
Che cosa vediamo, davvero
Nei porti vediamo il peso che scende sulle schiene, la polvere che entra nei polmoni, l’organizzazione spietata del tempo. Nei Travestiti vediamo la lotta quotidiana per essere chiamati per nome. In entrambi i casi, la messa in scena è minima: l’immagine non chiede consenso estetico, chiede spazio civile. È fotografia come atto di cittadinanza.
Obiezioni
C’è chi vede in quel lavoro una postura “salvifica” dell’autore. L’obiezione non va scartata: l’asimmetria esiste. Ma nel metodo di Carmi — relazione, continuità, restituzione — c’è già la risposta possibile. Non parla su, parla con. E poi si fa da parte, quando sente che è giusto così.
Prospettiva
Dopo la sua morte, i lavori tornano nei musei e nelle riedizioni: non come reliquie, ma come strumenti per leggere il presente. In UK, nel 2023, la prima mostra museale dedicata a Carmi ha riaperto il dossier: lavoro, genere, archivi, diritti. È un invito a ricucire l’Italia con lo sguardo, non con lo slogan.
E allora cosa resta a noi?
Tre passi concreti. Primo: rivedere i luoghi del lavoro con lenti umane — non statistiche, ma volti, posture, ritmi. Secondo: aggiornare le didascalie del nostro linguaggio su identità e genere, per non ferire senza volerlo. Terzo: adottare un archivio “aperto” — foto e storie che tornano ai soggetti e alle comunità.
Tre verbi da portare via: ascoltare, restituire, custodire.






