Non serve parlare di me. Non serve ricordare il giorno in cui mi hanno ucciso. È già tutto scritto in quel corpo sulla sabbia, in quella luce sporca di novembre. Se volete capire, guardate dove è accaduto. Lì, non nei salotti.
Io ho vissuto tra i corpi veri. Non quelli lucidati dalle réclame, ma quelli con le ossa sporgenti, con l’odore addosso. Le borgate non erano uno sfondo romantico. Erano un Paese che non voleva guardarsi allo specchio. Io non li ho “rappresentati”. Ho solo ascoltato.
Vi siete convinti che io odiassi l’Italia. Non era odio. Era disperazione. Amavo questo Paese come si ama qualcuno che non si lascia salvare. Gli gridavo addosso perché non sopportavo di vederlo mentirsi.
Quando parlavo, volevate che tacessi. Quando tacevo, mi fraintendevate. È sempre così con chi non si lascia piegare: lo si traveste da simbolo per non sentirne la voce. Ma io non ero un simbolo. Ero uno sguardo.
L’Italia si è raccontata felice. Io ho mostrato la crepa. Ha creduto nella modernità come in una fede nuova. Io ho detto: attenti, non è innocente. Non è il benessere che cambia l’uomo, è il potere che cambia la forma del desiderio.
Poi è arrivata la notte. La sabbia. Il silenzio. Qualcuno ha creduto di spegnere una voce. Ma le parole, una volta dette, non tornano indietro. Rimangono nell’aria, in attesa di un orecchio abbastanza nudo per ascoltarle.
Non parlatemi con la lingua del rimpianto. Non fatemi santo, non fatemi martire. Se volete ricordarmi, sporcatevi le scarpe. Guardate dove non si guarda. Ascoltate chi non ha voce. E non piegate le parole per farle entrare in salotto.
Io non ho mai voluto piacere. Ho voluto dire. Se ancora sentite questa voce, non è un miracolo. È la lingua viva che continua a graffiare.
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Questo non è un testo di Pier Paolo Pasolini. È un omaggio, una voce immaginata in sua memoria, nel cinquantesimo anniversario della sua morte.




