Sogno, tradimento e convivenza possibile
Deserto al crepuscolo. La luce scende in diagonale, sabbia e cielo si stringono. La tenda è bassa, corde tese, un braciere spento. Sento il cavallo prima di vederlo. Entra solo a metà: solleva il telo con due dita, resta in controluce. Occhi chiari, stanchi più che fieri. Nessuna divisa. Ha cercato lui me, non il contrario. «Non per ricordare — dice senza sedersi — ma per rispondere.»
La domanda è questa: esiste — ed è mai esistita — una strada reale verso la convivenza tra palestinesi e israeliani, oltre le linee dritte sulle mappe, oltre i muri e le sirene? Lawrence viene a dire che sì, un varco c’è stato. Si è chiuso quando la parola “libertà” è diventata pedina strategica. E che l’errore si ripete ogni volta che scambiamo un popolo per un mezzo.
Q. Perché mi hai cercato tu?
A. Perché chiedi della convivenza, non della leggenda. La leggenda è comoda, la convivenza costa. Volevo parlare dove non si cerca un eroe da incorniciare.
Nota del narratore. Nel suo tempo, la rivolta araba viene incoraggiata con promesse larghe. Altrove, stanze chiuse tracciano futuri altrui. Due binari che non s’incontrano.
Q. Dov’è cominciato l’errore?
A. In una promessa doppia. A oriente, autodeterminazione; a occidente, spartizione. Sulla carta le rette convergono. Nella vita dei popoli, no.
Q. Tu ne eri parte. Ti senti complice?
A. Complice e testimone. Ho portato uomini a rischiare tutto per una parola, “libertà”, che per loro significava casa, lingua, governo. Per altri era leva diplomatica. Chi guida sotto una bandiera deve sapere di chi è quella stoffa.
Q. Arriviamo all’oggi. “Convivenza” suona a molti come parola logora. Cosa rispondi?
A. Che è logora perché abusata. La convivenza non è un sentimento ma un’architettura: diritti, sicurezza, giustizia, riconoscimento. Senza muri portanti, crolla al primo scossone.
Q. Da dove si comincia a costruire?
A. Da una verità scomoda: due memorie legittime, entrambe ferite. Se una viene trattata come errore da cancellare, si edifica sul vuoto. Poi monopolizzare la forza: niente milizie private, niente vendette senza legge. E scuole miste dove si studi la storia dell’altro nella lingua dell’altro.
Micro-scena. La tenda sbatte. Il cavallo soffia. Lui annuisce verso l’uscita. «Le parole fanno i muri — mormora — e li possono togliere.»
Q. Le parole. In che modo hanno sabotato il tuo tempo?
A. Abbiamo chiamato “mandato” ciò che era controllo, “accordo” ciò che era spartizione, “protezione” ciò che era gerarchia. Le parole educano o corrompono l’anima. Se dici “proteggere” invece di “dominare”, finisci per crederti misericordioso.
Q. Che cosa avresti fatto diversamente?
A. Meno scena, più carta pubblica. Accordi alla luce del sole, con scadenze e sanzioni. Tempo per far crescere élite locali, anche a costo del disordine. La libertà non si installa dall’alto né in un giorno.
Q. È tardi?
A. “Tardi” è un alibi. Le finestre si riaprono quando il costo del conflitto supera il vantaggio. Il punto è avere progetti pronti quando succede. Altrimenti il vento entra e non cambia l’aria.
Q. Che tipo di progetti?
A. Due strade: due Stati praticabili o una confederazione severa sui poteri. Non slogan, ma mappe di competenze. Confini gestibili, sicurezza condivisa, tutela internazionale a tempo con scadenze chiare, acque e terre amministrate da un’autorità terza con arbitrati rapidi. E corridoi reali di mobilità: porti, strade, lavoro. La pace senza movimento è una prigione elegante.
Q. Se ti chiamano ingenuo?
A. L’ingenuità è credere che il presente smetta di bruciare senza un progetto. Il cinismo è pigrizia vestita bene.
Q. Cosa serve ai popoli per muoversi verso la convivenza?
A. Che convenga. Incentivi materiali condizionati a risultati verificabili. E narrazioni pubbliche che non umilino nessuna identità. La dignità è una valuta: se la sottrai a uno, aumenti il debito di tutti.
Q. Un errore che vedi ripetersi?
A. Confondere la carta con il terreno. Le linee non diventano strade da sole. Le strade sono ponti, check-point tolti, dogane snelle, mercati che mescolano. La mappa viene dopo, come memoria di quel che funziona.
Q. Cosa dire a chi ha paura vera, non ideologica?
A. Che la paura è legittima, non ridicola. Ma non deve guidare. Le si dà un posto al tavolo, non la presidenza. E si oppone una pratica quotidiana di sicurezza: pattuglie congiunte, giustizia rapida, nessuna impunità per chi colpisce civili. La paura arretra quando la legge arriva prima della vendetta.
Q. In alcune pagine ti definisci “impostore”. Perché?
A. Ho goduto della parte romantica mentre altri pagavano il conto. La storia non ha bisogno di eroi che si raccontano, ma di adulti che mantengono promesse sobrie.
Q. Una frase da lasciare a chi cresce sotto sirene o sotto bombardamenti?
A. “Non lasciate che vi definiscano per negazione.” Non siete solo “contro”. Siete “per”: una scuola, una strada, un campo, una lingua. Nominate ciò per cui siete e pretendete leggi che lo rendano possibile.
Il cavallo scuote la testa. La tenda respira. Lawrence non lascia un epitaffio, ma un promemoria asciutto, quasi da ingegnere: promesse pubbliche con scadenze; sicurezza condivisa, non privatizzata; “chi fa cosa” scritto e verificabile; scuole e mercati che mescolano, subito; parole giuste, chiamando il dominio “dominio” e la pace “lavoro”.
«Le mappe — dice uscendo — sono responsabilità, non incantesimi.»
Resta un silenzio che non scotta. È spazio di lavoro.
Meccanismo
Questa conversazione mostra un metodo, più che un mito.
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La promessa come dispositivo politico. Funziona solo se è pubblica, temporizzata, sanzionabile. Altrimenti diventa coperta per altri disegni.
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La convivenza come ingegneria istituzionale. Non sentimento: competenze, giurisdizioni, sicurezza e risorse in comune, arbitrati rapidi, corridoi materiali.
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Il linguaggio come infrastruttura. Le parole non descrivono: costruiscono fiducia o la distruggono.
Obiezioni e limiti
Si dirà: trauma, odio, asimmetrie rendono impraticabili modelli puliti. È vero. Nessun progetto regge senza sicurezza, senza fine dell’impunità e senza riconoscimento dell’altro come soggetto politico. Ma aspettare il “momento giusto” è il modo migliore per non averlo mai. E nessun prefabbricato istituzionale importato — copiato dall’Europa del dopoguerra o da altrove — basta: serve artigianato politico locale, con margini di prova ed errore, controllati e trasparenti.
Etichetta di trasparenza
Questa è una ricostruzione narrativa verosimile basata su fonti storiche note; le parole attribuite a T.E. Lawrence non sono citazioni autentiche, ma una messa in scena coerente con il suo percorso e con i fatti.






