

Il mio agente ha detto: “Oslo. Missione nobile.”
Io: “Pagano?”
Lui: “Sono nordici.”
“E che devo fare?”
“Perorare una causa impopolare con garbo. Vai lì e chiedi ai signori della Pace perché Rump non è il loro prescelto. Porti tre argomenti. Ti farai voler bene da nessuno. Perfetto per te.”
Ed eccomi al Norwegian Nobel Institute con berretto di lana e sciarpa che sa di panchine. Nella sala d’attesa un cartello scolpito nel bronzo: We do not comment on candidates for 50 years. Cinquanta anni. Un numero che è già una recensione.
Mi ricevono in una stanza sobria. Due persone: un membro del Comitato per la Pace (lo chiamerò C.) e una storica dell’istituzione (S.), occhiali sottili, tono da metronomo. Premessa di C.: “Non facciamo nomi, non confermiamo né smentiamo.”
“Tranquilli,” dico. “Farò solo metodo. Ma, per mestiere, l’avvocato del diavolo devo farlo.”
S. annuisce: “Sul diavolo non abbiamo competenza, sul metodo sì.”
Apro il taccuino. Ho tre “prove”, lucide come una scarpa nuova.
Prova 1: gli accordi (quelli che fanno foto).
“Mettiamo,” dico, “che un leader abbia promosso intese visibili fra Paesi che fino a ieri si ignoravano o si ringhiavano. Foto sul tappeto rosso, firme, sorrisi. Valgono?”
S. sorride di lato: “Valgono se producono esiti verificabili: cessate il fuoco rispettati, ambasciate che aprono, scambi che crescono, vittime evitate. Noi guardiamo al dopo-foto.”
“E quanto dopo?”
C.: “Abbastanza da distinguere l’annuncio dalla struttura.”
Segno: Foto ≠ pace. Un asterisco grande come il pianeta.
Prova 2: evitare guerre (o dire di averle evitate).
“Ammettiamo,” continuo, “che un leader sostenga: ‘Con me non è scoppiata una guerra più grande’. Come lo misurate?”
“Con dati,” dice S. “Indice delle violenze, curve delle vittime, archivi diplomatici. E attribuzione: la controfattuale è difficile — dimostrare che senza di lui sarebbe andata peggio. Non premiamo ipotesi.”
“Quindi niente premio per i disastri non avvenuti?”
C.: “Se qualcuno dimostra che non sono avvenuti grazie a un’azione precisa, sì. Ma serve più di un comizio.”
Esiti > narrazione, scrivo. Sembra la dieta nordica.
Prova 3: il “realismo muscolare”.
“Terza tesi,” dico, con la diligenza di chi compila il 730: “C’è chi sostiene che la pace, a volte, si ottiene mostrando i muscoli. Pressioni, dazi, minacce calibrate: ‘ha funzionato, lo rispettavano’. Pesate anche questo?”
C.: “Pesiamo risultati stabili. La pace basata sulla paura è sabbia: regge finché qualcuno soffia. Se porta a un trattato che dura, allora guardiamo il trattato.”
“E i toni, le parole, gli insulti?”
S.: “Non premiamo il garbo. Ma le parole possono bruciare ponti che poi nessuno riesce a ricostruire. Anche quello è un fatto.”
Qui faccio una pausa teatrale, come nei ristoranti prima del dolce. “Io sto, per contratto, perorando la causa di un personaggio divisivo,” confesso. “Se volessi insistere, come potrei impostare un dossier convincente secondo voi?”
S. stacca una frase come un francobollo: “Tre colonne: fatti documentati, durata degli effetti, verifiche indipendenti. Senza quelle, resta propaganda.”
C. aggiunge: “E ricordando che il nostro statuto parla di fraternità fra le nazioni, riduzione degli eserciti permanenti, congressi di pace. Alfred Nobel è sorprendentemente concreto.”
Tiro una riga sul quaderno e preparo il mio piccolo tabellone:
Mi scappa un sorriso. “Posso proporvi un punteggio provvisorio, solo per capire?”
C. si sistema la cravatta: “Provi.”
“Fatti 1 – Narrazione 0.”
S.: “È più spesso 3 a 0.”
“Cruenti.”
“Nordici,” corregge.
Mi rendo conto che, a furia di suonare l’avvocato del diavolo, sto cominciando a fare il diacono del metodo. Provo l’ultimo assalto.
“E se il mondo si dividesse proprio sul metodo? Una metà vede fermezza, l’altra vede caos. La vostra funzione non è, anche, mandare un segnale?”
S. scuote la testa. “Noi non mandiamo segnali. Premiamo lavori. I segnali li lascio ai fari.”
Mi offrono un caffè chiaro come un’ammissione. Sento il peso della sciarpa e dei miei tre argomenti, già più leggeri.
Cambio campo, per dovere d’agenzia. “Se non la Pace, e dico in astratto, la Letteratura? I discorsi, i libri col nome grande in copertina…?”
C. ride piano: “Questo lo chieda a Stoccolma.”
S.: “Ma il principio è lo stesso: si premia un’opera che regge il tempo. Non il volume dei megafoni.”
Dentro di me parte una piccola rassegnazione allegra: ho fatto il mio, sono stato serio senza sembrare serio, e soprattutto ho capito perché il cartello dei 50 anni sta dove sta. È un promemoria contro la glicemia dell’attualità.
Prima di congedarmi, provo a tirare la rete della storia. “Quindi,” dico, “se qualcuno volesse davvero quel premio, dovrebbe portare meno selfie e più protocolli, meno io ho fatto, più ecco i risultati, misurati da altri.”
C.: “È un buon riassunto.”
S.: “Con un’aggiunta: la pace non la fa una persona. La riconosciamo di solito nei processi, non nelle pose.”
Ci salutiamo con la gentilezza di chi non ha concesso nulla ma non ti ha trattato male. Nel corridoio guardo le foto in bianco e nero: medici, attivisti, capi di Stato stanchi. Alcuni nomi li ho già dimenticati, i loro fatti no. È un paradosso discretissimo: conta l’opera anche quando non ricordi l’autore.
Fuori, neve asciutta e marciapiede lucido. C’è un passaggio ghiacciato davanti al cancello. Un addetto sta arrivando con il sale, ma una signora con passeggino è già lì, indecisa. Le faccio cenno: “Un momento.” Prendo due assi appoggiate al muro (servono per i pacchi), le metto a cavalletto su due cestini, faccio un ponticello di fortuna. La signora passa; il bimbo ride; io mi sento, per dieci secondi, un ingegnere rispettabile.
Mi vibra il telefono. L’agente: “Titolo pronto: Woody difende Rump a Oslo.”
Io: “Meglio I Nobel misurano, Woody impara.”
Lui: “Meno click.”
“Io oggi ho visto il contrario: più fatti, meno click.”
“E il cachet?”
“Quello sì, per favore.”
Rientro nell’atrio a restituire le assi. L’usciere mi ringrazia con un takk che vale un diploma. Ripenso ai “tre punti” della mia arringa: foto, assenza di guerra, muscoli. Ho portato retorica; loro mi hanno aperto i cassetti con i dossier. Non so se convincerò qualcuno, ma mi porto a casa un criterio che non invecchia: prima i fatti, poi i fiocchi.
Chiudo il taccuino. Scrivo una riga per ricordarmi domani:
“Avvocato del diavolo sì, ma con le prove. Sennò è solo teatro.”
Esco. La neve continua come una call senza audio. Il mio ponticello improvvisato non c’è più: l’addetto ha sparso il sale, meglio di me. È giusto così. Il lavoro ben fatto è sempre più elegante di una posa ben riuscita.
E se un giorno, fra cinquant’anni, qualcuno aprirà un archivio e leggerà davvero, magari scoprirà che i premi sono solo l’effetto; la causa, quasi sempre, è un ponte che ha tenuto in silenzio. Armando.
Woody è un personaggio di finzione, il mio alter ego narrativo. Si ispira nello stile e nelle atmosfere al suo omonimo americano, senza alcuna affiliazione, approvazione o rapporto. I dialoghi e le situazioni sono inventati o rielaborati a fini narrativi; eventuali riferimenti a persone o fatti reali servono al racconto e non intendono descriverli fedelmente. Marchi e nomi citati appartengono ai rispettivi titolari.
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