

È lei che mi cerca. Non il contrario. Mi trova nella luce verticale di Palermo, una mattina che sa di mare e di gesso. Cammina svelta. Non saluta. Si mette di lato, controluce, come una figura che rifiuta la posa. “Allora, che vuoi sapere?” Non è una domanda gentile: è un invito a non perdere tempo.
Q. Perché Palermo, così com’è: spietata e viva?
A. Perché è casa. Perché ti ferisce e ti chiama. Io ho iniziato tardi, lo sai: quarant’anni passati, una vita che si spacca, e poi la macchina in mano. Non cercavo l’arte. Cercavo di capire. All’Ora servivano occhi che non scappassero. Io non sono scappata.
A Palermo, negli anni in cui la città impara la parola “strage”, fotografia e cronaca si stringono come due corde. Il giornale chiama, la volante corre, la città trattiene il respiro. Battaglia arriva. Non decora. Registra. Mette in fila tre doveri: vedere, nominare, restituire. È un metodo, non un temperamento.
Q. Come stavi dentro l’orrore senza farne spettacolo?
A. Ci stai vicino quanto basta. Né eroismo né distanza. Guardi gli uomini stesi a terra, ma poi ti volti verso chi resta: donne, bambini, i volti appesi ai balconi. Lì c’è la misura. Non fotografi la morte per vincere un premio. Fotografare serve ai vivi.
Le sue foto nere e taglienti non sono “effetti”. Sono prova e memoria. Seleziona l’istante come si sceglie una parola esatta. Aggiunge poco. Toglie il superfluo. Tiene la dignità anche quando l’oggetto è indegno.
Q. “Militante” ti andava stretta o ti calzava giusta?
A. Giusta, se la capisci. Militante vuol dire stare di parte. Io stavo dalla parte della città contro chi la violentava. Non facevo propaganda, facevo responsabilità. La fotografia è un mestiere civile, prima che artistico.
Battaglia non delega la politica agli altri. Entra nelle istituzioni, lavora con le donne, apre spazi. La macchina fotografica non le basta: vuole anche tavoli, scuole, riviste, una città che parli a se stessa senza paura. Perché un’immagine funziona davvero quando genera conversazioni e scelte.
Q. Bianco e nero, distanza breve, luce dura. Scelta estetica o necessità?
A. Necessità. Il colore rischiava di consolare. Il bianco e nero è più onesto. Ti impedisce di goderti la scena. La luce di Palermo non perdona. Io ne approfittavo. Niente abbellimenti: pulizia, un metro avanti, uno indietro. E rispetto.
In quel rigore c’è una grammatica: orizzonte basso, taglio rapido, fondo che non distrae. Lo sguardo si appoggia dove serve e si ferma lì. È fotografia che non recita.
Q. E la bambina con la palla?
A. È la domanda giusta. La prima volta la fotografi perché ti attraversa, con quella sfida negli occhi e il gioco in mano, in un quartiere che non perdona. Le immagini forti non si “scattano”, ti vengono incontro. Poi, anni dopo, la cerchi. La ritrovi. Le chiedi come sta. Restituisci. La fotografia senza restituzione è prelievo. Io non volevo rubare.

Quel gesto racconta più di mille manifesti: un archivio non è un mausoleo, è un patto. Se vai in casa d’altri a prendere, devi anche tornare a portare. È un’etica semplice, ma è lì che una foto diventa storia condivisa.
Q. Ti sei mai chiesta se certe immagini ferissero due volte: chi le vive e chi le guarda?
A. Sì. Il dolore taglia in entrambe le direzioni. Ma il silenzio fa peggio. L’importante è come mostri. Se rispetti le persone, la ferita non è pornografia, è testimonianza. E la città ha bisogno di sapere di che cosa è fatta.
Nelle stanze d’archivio la pena resta, ma cambia funzione: da urlo diventa lezione. La fotografia, così, allena gli anticorpi civili. Non consola, educa.
Q. Ai ragazzi che oggi fotografano periferie, guerre, migrazioni: cosa diresti?
A. Studiate i luoghi. Parlate con chi ci vive. Guardate gli occhi. Siate chiari su che cosa volete fare delle immagini. Non c’è neutralità: c’è onestà. E poi lavorate in gruppo: la città si cambia insieme, non da soli.
La sua idea di “scuola” non ha banchi né cattedre. Ha laboratori, quartieri, gruppi misti. Dentro ci stanno tecnica, diritto, storia locale. La fotografia, ridotta a sola estetica, diventa decorazione. Lei la sposta di nuovo sul terreno del fare.
Q. Cronista o artista?
A. Non mi interessa la definizione. Se la foto serve a chi deve capire, mi sta bene tutto. L’arte vera non addolcisce il mondo, lo fa vedere meglio.
Questa posizione è più che un aforisma. È una linea guida editoriale. In pagina, le sue immagini non chiedono “applausi” ma domande: chi? perché? chi protegge? chi ha taciuto? chi può parlare adesso?
Q. E oggi, nel 2025, cosa ti farebbe alzare di nuovo la macchina?
A. Le stesse cose mascherate diversamente: poteri opachi, povertà che non si vede, violenze intime. Mi interessano le donne e i ragazzi. Mi interessano le periferie “vicine” che facciamo finta di non conoscere. Fotograferei la normalità che copre l’ingiustizia.
Si ferma. Mi osserva come si controlla la messa a fuoco: un giro appena sulla ghiera, niente di più. “Non vi servono eroi,” dice senza alzare la voce. “Vi servono archivi vivi e mani pulite.” È una frase che sa di redazione, non di palco.
Q. Se ti chiedessi il tuo lascito in tre verbi?
A. Vedere, nominare, restituire.
Li appoggia sul tavolo come si posano tre strumenti di lavoro. La città, intanto, scorre fuori: motorini, voci, tende bianche ai balconi. Palermo non si mette mai in posa davvero. E Letizia non ci ha mai provato. Ha preteso che l’immagine rispondesse alla realtà, non il contrario.
Quando si alza, la luce è cambiata. Mi fa un cenno minimo, come a dire: hai quello che ti serve, adesso usalo bene. Resta una scia di sale e di carta fotografica. E un compito: trattare le fotografie come cittadine, non come soprammobili.
Non posso ringraziarla ad alta voce. Posso però mostrare il metodo, che è più onesto del mito: scegliere la parte, lavorare con precisione, tenere la porta aperta a chi sta nell’inquadratura. La fotografia civile non finisce con lo scatto. Comincia lì.