

Il mio agente mi ha mandato un messaggio con solo due parole: “tasse” e “cachet”. Ha aggiunto un’emoji col cappellino da festa, che ho letto come: “non è arte, ma paga l’idraulico”. L’accordo era semplice: un politico italiano — famoso in Italia, praticamente anonimo altrove — desiderava un’intervista con me. Niente televisione, niente giornali. Voleva pubblicarla sui suoi social, insieme a un selfie “storico” con Woody. Io dovevo fare domande serie su tre temi “di fondo”: i ponti, il Milan, i selfie. In questo ordine, come se fossero i tre atti di una tragedia o tre portate di un fast food.
Ho firmato una liberatoria che sembrava il libretto di un’opera minore, con clausole sul diritto all’immagine e al sorrisetto. In calce, la voce “pubblicazione integrale sui profili del Senatore” (non era un Senatore, ma si faceva chiamare così nelle mail), più un bonus “spontaneo” in caso di post virale. Ho pensato ai tubi del bagno di casa mia e alla loro recente ambizione di allagare il corridoio. Ho detto di sì.
L’incontro è fissato al bar di un hotel vicino alla stazione. Posto pratico: pendolari, trolley rumorosi, luci che promettono igiene. Lui entra in scena con passo largo e maglione costoso. È molto simile a quell’uomo che in certi comizi indossa sciarpe di lana come bandiere. Mi stringe la mano come si stringe un microfono. Ha due assistenti. Uno tiene il telefono puntato su di noi, già live ma “solo per prova”. L’altro controlla la luce. Io controllo l’uscita.
“Grazie Maestro di aver accettato,” dice. Lo dicono sempre così, “Maestro”, come si fa con i barbieri. “Le domande sui temi di fondo, poi il selfie. Carico tutto su Instagram e X. La gente capisce.”
“Perfetto,” dico. “Le tasse anche.”
Sediamo. Io tiro fuori il mio taccuino. Lui sistema la sciarpa come un personaggio di scena. L’assistente mi passa un telefono con la cornice in gomma rossa. “Usi questo, riprenda anche lei il punto di vista dietro le quinte,” mi sussurra, fiducioso che il mondo voglia vedere l’angolo della mia narice.
Premo Rec. Sorrido. Ricordo a me stesso che faccio questo per soldi, ma decido di farlo bene. Non c’è niente di più triste dei lavori fatti male per cinismo.
“Partiamo dai ponti,” dico. “Lei ne parla spesso.”
“Certo,” risponde. “Un ponte unisce. È la cosa più politica che esista. Sta sopra le acque agitate e ti porta dall’altra parte. E poi si vede, è concreto. In campagna elettorale, la gente vuole cose che si vedono.”
“Si vedono le inaugurazioni,” dico. “Il ponte vero di solito si vede ogni mattina alle otto e ogni sera alle sei, quando non crolla.”
Ride. “Noi non facciamo crollare niente. Al massimo facciamo cadere avversari.”
“Quindi, quando dice ‘ponti’, parla di opere o di consenso?”
“Di opere che portano consenso,” risponde, allegro. “È la bellezza della democrazia.”
Annuisco. “E il ponte tra quartieri ricchi e quartieri poveri? Non ha piloni, quello.”
Lui inclina la testa, finge di pensarci. “Ci pensano i privati. Noi togliamo burocrazia. E facciamo foto.”
L’assistente alza il pollice. L’inquadratura gli piace.
“D’accordo,” dico. “Secondo tema: Milan.”
Lui si raddrizza. “Il Milan è identità. Valori. Tradizione. Lavoro, sacrificio, vittoria.”
“E anche sconfitte,” aggiungo. “Sennò non sarebbe sport.”
“Certo, ma le sconfitte non si postano. La gente vuole vincere.”
“E quando governa, la gente vince?”
“Governa chi vince,” sorride. “Lo sport è un corso accelerato di politica, ma con regole più chiare.”
“E gli arbitri?”
“Gli arbitri sono l’Europa,” dice, sicuro. “Non ce l’hanno con noi, ma fischiano a caso.”
Prendo nota. La mia grafite scivola come un pattino. La sua frase resterà in testa a lungo: “non ce l’hanno con noi, ma fischiano a caso”. È il modo più elegante che abbia mai sentito per giustificare tutto.
“Terzo tema: selfie,” dico. “Ha detto che vale più di un programma politico.”
“È prova di vita,” risponde. “Sei lì, con la gente, sul territorio. La gente non legge i programmi, guarda chi c’è. Se ci sei, esisti.”
“Sei dove?” chiedo. “Nel telefono o nella città?”
“Nel telefono, che è la città.”
Mi volto verso l’assistente. Lui annuisce come se avessi chiesto un bicchier d’acqua. Il telefono, la città. Mi torna in mente quando da ragazzo studiavo le mappe di New York sui pieghevoli della metro, ritagliando stazioni come francobolli. Il telefono adesso è la mappa e il paesaggio insieme: un ponte che non unisce, ma scorre.
“E quindi,” dico, “il selfie che faremo adesso — con me, con la mia faccia stanca — a cosa serve?”
“È un ponte emotivo,” risponde il politico, serio. “Lei è un’icona. Io sono… io. La gente vede due mondi che si toccano. È come mettere il Milan e la scala di un ponte nello stesso schermo.”
“Unisce o confonde?”
“Unisce. Poi confonde. Ma intanto unisce.”
La promessa di cachet scivola nella tasca interna della mia giacca. Sento il suo peso morale: leggero come una piuma quando lo guardi prima, pesante come un martello quando torni a casa e provi a dormire. Decido di fare quello per cui mi hanno pagato: porre domande fino in fondo, in modo diligente, come si rifà un letto in albergo.
“Se io le dico ‘ponte’, lei pensa alle infrastrutture o alle persone?”
“Alle persone che inaugurano infrastrutture,” dice. “Perché senza persone non ci sono servizi.”
“E se le dico ‘Milan’ pensa alla curva o ai bambini che giocano nei cortili dietro le case popolari?”
“Penso che i bambini non votano.”
“E se le dico ‘selfie’ pensa alla memoria o alla dimenticanza?”
“Alla memoria breve,” sorride. “Quella che decide le elezioni.”
Mi guardo la mano sul telefono. È la mano di un uomo coscienzioso che si lascia trascinare dai debiti. Ma ho un compito: il mio mestiere, anche quando lo prendo per fame, è fare chiarezza nel modo più confuso possibile.
Gli propongo un gioco. “Proviamo a scambiare i termini,” dico. “Un ponte senza selfie: pochi like, ma la gente ci passa e si salva dalla pioggia. Un selfie senza ponte: molti like, ma sotto c’è un fiume e nessuno sa nuotare. Il Milan senza arbitri: vinciamo tutti e non vince nessuno. Un programma senza selfie: noioso. Un selfie senza programma: rumoroso.”
Lui ride. “Questo lo cito,” dice, già pensando al post. “Scrivo: Woody spiega la politica in quattro righe.”
“Non mi citi,” dico. “Mi rovina la carriera.”
Ridono tutti. L’assistente mi offre la sua inquadratura preferita. “Adesso,” dice il politico, “facciamo il selfie e chiudiamo. Sorriso naturale, ma anche un filo di riconoscenza. Deve trasparire che c’è intesa. Sa, la gente ama l’intesa.”
Ci alziamo. Nel muro dietro il bancone c’è una stampa grande: un ponte sospeso su un fiume che non esiste, troppo azzurro per essere vero. Sotto, una scritta motivazionale: Connect the dots. Unisco i puntini: tasse, cachet, liberatoria, social. Siamo tutti dentro lo stesso telefono.
“Un attimo solo,” dico. Esco dal bar e torno con due sedie pieghevoli trovate nel corridoio. C’è una passerella traballante tra la sala e la veranda. La sistemo appoggiando le sedie come puntelli. Chiamo il cameriere. “Così non inciampa nessuno,” dico. Lui mi guarda come si guarda un turista educato. Il politico osserva la mia piccola ingegneria con curiosità.
“Che fa, costruisce ponti?” chiede.
“Faccio finta,” dico. “Miniatura. Prototipo. Versione beta.”
L’assistente filma in verticale. Il politico sorride, prende il mio braccio, mi tira verso di sé. “Questo è il frame,” dice. “Costruiamo insieme. Ponti e sorrisi.”
Scattiamo. Un colpo solo. Nella foto si vede lui davanti, io leggermente di lato, le sedie dietro che reggono la passerella. Siamo due persone in un bar che provano a sembrare un’idea.
“Perfetto,” dice. “La posto subito. Con Woody parliamo di ponti veri, di calcio e di comunità.”
“Ha ascoltato la parte sulle comunità?” chiedo.
“Certo,” dice, mentre digita. “È implicita.”
Io raccolgo il mio taccuino. Diligente fino all’ultimo, gli chiedo se vuole riascoltare alcuni passaggi prima di pubblicare. Dice no, che la freschezza è tutto. L’assistente aggiunge tre hashtag e un cuore. Il social team applaude in silenzio.
Alla cassa, pago due caffè e un’acqua. Il politico insiste, ma gli dico che a quelli ci penso io. È il mio modo per uscire dalla scena con una dignità economica da due euro e cinquanta. Fuori, la città vibra come un frigorifero. Siedo sul marciapiede un minuto, con il telefono spento. Ogni volta che chiudo gli occhi, vedo ponti. Alcuni di pietra, altri di parole. Quelli di pietra ti tengono; quelli di parole ti tengono finché qualcuno non parla più.
Il mio agente mi richiama. “È online. Sta andando forte. Il bonus è quasi certo.”
“Bene,” dico. “Compriamo guarnizioni nuove per il bagno.”
“Sei contento?”
“Ho fatto il mio lavoro,” rispondo. “Ho fatto domande. Lui ha risposto. Il mondo ha messo un cuore.”
Rientro nell’hotel per recuperare i miei guanti. Passo vicino alla passerella. Le sedie sono ancora lì, puntelli provvisori. Un cameriere ci appoggia sopra un cartello: Attenzione: lavori in corso. Sorrido. In fondo, è l’unico programma politico che oggi ho visto scritto per intero.
“Un ponte senza selfie tiene. Un selfie senza ponte posa.”
Esco. L’aria è fredda. Il mio telefono vibra: notifiche, tag, cuori. Lo rimetto in tasca. Prendo la strada più lunga per tornare a casa. Attraverso davvero un ponte. Sotto, un fiume grigio. Non lo fotografo. Lo lascio scorrere.
Woody è un personaggio di finzione, il mio alter ego narrativo. Si ispira nello stile e nelle atmosfere al suo omonimo americano, senza alcuna affiliazione, approvazione o rapporto. I dialoghi e le situazioni sono inventati o rielaborati a fini narrativi; eventuali riferimenti a persone o fatti reali servono al racconto e non intendono descriverli fedelmente. Marchi e nomi citati appartengono ai rispettivi titolari.
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