

Chi salva ciò che gli altri dimenticano
C’è un tempo in cui la memoria non è un sentimento: è un dovere civile. È quel che accade nei luoghi dove si archivia per mestiere — biblioteche, archivi di Stato, teche radiotelevisive, centri di documentazione. Non sempre sono luoghi scintillanti. Molti sono cantine o palazzi ottocenteschi dove la temperatura è controllata con cura monastica e il personale si muove tra scaffali infiniti. Ma sono loro, silenziosi e lenti, a garantire che almeno una parte di ciò che produciamo non svanisca.
L’archivio pubblico nasce per tutelare diritti e memoria civica. Prima ancora che per raccontare storie. Senza registri catastali, atti notarili, verbali, mappe, nessuna comunità potrebbe ricostruire sé stessa. Eppure la loro forza è sempre stata discreta, mai spettacolare: un archivio è una fortezza invisibile.
Nel Novecento, con la radio, la TV e l’editoria di massa, la sfera pubblica si è moltiplicata. Gli archivi hanno dovuto imparare a custodire nuovi linguaggi: suono, immagini in movimento, giornali, materiali scolastici, registrazioni amatoriali. Nasce la stagione delle teche: RAI, archivi regionali, archivi comunali, biblioteche nazionali.
Lì dentro ci sono ancora tracce che nessun algoritmo saprebbe ricomporre: la voce incrinata di una donna che racconta l’alluvione del ’66; un notiziario locale girato con una telecamera pesante come una valigia; un diario di scuola ingiallito ma leggibile.
Oggi questi presìdi sono messi davanti a una sfida nuova: il presente nasce digitale, e nasce già disperso. I fondi pubblici non bastano, i formati cambiano a ritmo frenetico, e una parte enorme della memoria collettiva è nata fuori dai confini istituzionali: piattaforme private, social media, archivi personali.
Gli archivi pubblici non possono semplicemente “accumulare”: devono decidere, con pochi mezzi, cosa salvare e cosa no. Devono migrare supporti, aggiornare sistemi, difendere il diritto di accesso. Devono fare tutto questo mentre la nostra attenzione pubblica si consuma in 24 ore.
Dietro a ogni scaffale, ogni hard disk, ogni migrazione di formato, ci sono archivisti, bibliotecari, tecnici, funzionari spesso invisibili. Non controllano la memoria: la servono. Il loro lavoro è lento, metodico, poco glamour — ma senza di loro la memoria pubblica collassa.
Un archivio pubblico non è solo un luogo dove si conserva. È un’istituzione che garantisce continuità tra presente e futuro. Se cade, cade un pezzo di democrazia.
Gli archivi pubblici non sono neutri: selezionano, catalogano, interpretano.
Senza fondi adeguati, la selezione diventa “a sopravvivenza”, non per valore.
Ogni documento che non entra in questi circuiti rischia di restare nelle mani di pochi o sparire.
Ma se l’archivio pubblico si apre alla società — scuole, media civici, comunità locali — può tornare a essere un luogo vivo, non un museo di carte.
Chi decide cosa entra oggi in un archivio pubblico?
Con quali criteri si selezionano i materiali nativi digitali?
Quanti archivi pubblici hanno un piano di migrazione tecnologica decente?
Come si bilancia la trasparenza con la privacy?
I prossimi anni decideranno se gli archivi pubblici resteranno cuore pulsante della memoria collettiva o diventeranno reliquie lente in un mondo troppo veloce.
Per sopravvivere, dovranno collaborare con la società civile, sviluppare infrastrutture comuni, ragionare su formati aperti e nuove forme di partecipazione.
Non è un sogno romantico: è pura necessità.
Questa è la prima tappa di un viaggio in tre puntate:
Il presidio pubblico (questa).
La memoria privata — piattaforme, aziende, formati proprietari.
La memoria civica — comunità, archivi locali, reti dal basso.
Perché la memoria collettiva non è mai custodita in un solo luogo. È una mappa viva, da tracciare insieme.