

Il potere di chi conserva senza doverlo spiegare
Non serve un archivio polveroso per scrivere la storia. Oggi basta una piattaforma.
Una manciata di grandi aziende tecnologiche — Meta, Google, Amazon, Apple, TikTok e poche altre — custodiscono una porzione immensa della memoria collettiva contemporanea. Non lo fanno per missione pubblica: lo fanno perché conviene. E proprio qui si apre la faglia.
Ogni giorno carichiamo dati che sembrano destinati a restare per sempre: foto, chat, post, video, documenti. Ma quel “per sempre” è scritto in piccolo, in linguaggio contrattuale: basta un cambio di policy, un’acquisizione, una chiusura di servizio perché interi archivi collettivi svaniscano senza appello.
MySpace ha perso milioni di brani musicali. Google+ è evaporato. Pagine Facebook di associazioni e movimenti di quartiere giacciono sospese: contenuti imprigionati in server non accessibili. La memoria privata non è garantita, è concessa — finché conviene a qualcuno.
C’è una parte ancora più opaca: ciò che non vediamo ma lasciamo dietro. Metadati, cronologie, backup automatici, doppie copie in data center. Qui non si tratta di narrazione, ma di potere. Chi controlla questi dati controlla ciò che è ricordabile e ciò che può sparire senza lasciare traccia.
Le aziende non sono obbligate a custodire per interesse pubblico. Rispondono a logiche commerciali, normative e di reputazione. E quando smettono, non c’è archivista né istituzione che possa bussare alla porta.
La memoria privata è seducente perché facile: archivia senza che tu debba pensarci. Sincronizza, duplica, organizza. Ma ti lascia senza sovranità. Se domani perdi l’accesso a un account, perdi pezzi interi della tua storia personale e collettiva. E recuperarla può essere impossibile.
La proprietà dei dati resta dell’utente, ma la custodia e l’accesso dipendono interamente dalla piattaforma.
I formati chiusi limitano l’esportazione e spesso la rendono parziale.
Le aziende non hanno alcun obbligo di garantire conservazione a lungo termine.
Il diritto all’oblio è previsto, quello al ricordo condiviso no.
Cosa succede ai contenuti quando un servizio chiude?
Perché non abbiamo ancora un vero “passaporto” dei nostri archivi digitali?
Chi può accedere agli archivi privati in caso di interesse pubblico?
Qual è il confine tra tutela della privacy e cancellazione della storia?
Nel prossimo decennio si giocherà qui una partita cruciale: o la memoria privata si intreccerà con regole pubbliche e strumenti civici — standard aperti, portabilità dei dati, archivi condivisi — oppure rischiamo di vivere in un secolo senza archivi, dove tutto si può perdere in silenzio.
Chi controlla l’infrastruttura della memoria non è un semplice custode: è un editore invisibile della storia.
Questa è la seconda tappa del viaggio:
Il presidio pubblico.
La memoria privata (questa).
La memoria civica — comunità, archivi locali, reti dal basso.
La memoria privata è comoda, ma non è nostra. Finché non diventa condivisa e portabile, resta a rischio.