Un voto di scarto (il valore delle maggioranze sottili)

Mappe della memoria — La memoria civica
28 Ottobre 2025
La bellezza pretende coraggio
31 Ottobre 2025
Lezioni civili · 29 Ottobre 2025 · ⏱ 5 min · ~981 parole

C’è un momento, alla fine di ogni conteggio, in cui l’aria cambia. La sala è piena ma il rumore si ferma. Le schede sono state lette, le mani hanno contato, il presidente alza lo sguardo: “Approvato”. A volte basta una parola, a volte basta un numero che supera l’altro di uno. Non sembra molto, eppure sposta destini. Un voto di scarto è una soglia attraversata: la stessa stanza, un attimo prima, diceva “no”; un attimo dopo, dice “sì”.

Aula di Strasburgo, 7 ottobre 2025. Scrutinio segreto. Il Parlamento europeo decide sulla richiesta ungherese di revocare l’immunità all’eurodeputata Ilaria Salis. Votano in 628: 306 per difendere l’immunità, 305 contro, 17 astenuti. Uno solo fa la differenza. La luce si accende dal lato della tutela delle prerogative parlamentari; la discussione non finisce, ma cambia binario. La scena è minuta nei numeri, enorme negli effetti: una maggioranza sottile che diventa decisione piena.

Un’altra soglia, a casa nostra. Montecitorio, 9 ottobre 1998. Il Governo Prodi chiede la fiducia. L’esito è 312 sì, 313 no. Un numero in meno e l’esecutivo cade. Anche qui il meccanismo è nudo: differenza minima, conseguenza intera. La porta che si chiude non è “quasi chiusa”: è chiusa.

Che cosa ci mostrano questi casi? Che la maggioranza, in democrazia, non è una valanga: è un interruttore. Il meccanismo è semplice e delicato insieme. Fino alla soglia, la volontà collettiva non produce effetti; appena la supera, li produce tutti. È un sistema binario: 0/1. Da qui nasce un equivoco frequente: chi vince tende a leggere quel punto percentuale come un mandato plebiscitario; chi perde tende a considerarlo una rapina. Entrambi sbagliano prospettiva.

Una maggioranza sottile ha un valore educativo. Ricorda a tutti che la legittimità non si misura in decibel. Chiede a chi governa di parlare piano e di spiegare due volte, perché il Paese non è un blocco compatto: è una superficie nervosa, con molte fibre sensibili. Chiede a chi perde di restare nella partita, perché la distanza è breve e la prossima curva può cambiare il paesaggio. In altre parole, le maggioranze sottili obbligano alla manutenzione democratica: procedure chiare, tempi rispettati, mediazioni trasparenti. Quando manca questa manutenzione, la sottigliezza diventa ricatto: l’“ago della bilancia” fissa il prezzo, i corridoi contano più dell’aula, il voto diventa un gettone di scambio. È il lato oscuro della soglia.

Proviamo a scomporre. Primo: la soglia legittima l’azione, non la sostituisce. Vincere di poco non cambia la natura delle scelte; cambia il modo in cui vanno fatte. Servono parole sobrie, impatti graduali, valutazioni d’esito. Secondo: la soglia non racconta tutta la società. Una decisione presa al millimetro non è un giudizio morale sul Paese; è l’immagine di una comunità divisa su un tema. Trattarla come “spaccatura insanabile” è un eccesso retorico; trattarla come “licenza di procedere a tutta velocità” è imprudenza. Terzo: la soglia valorizza le istituzioni intermedie. Dove i margini sono stretti, i luoghi che preparano il consenso — commissioni, audizioni, consigli locali, comunità professionali — diventano utili. Lì si fa il lavoro che non si vede: si limano gli spigoli prima che la legge arrivi in aula.

Trasliamo al presente. Viviamo in un’epoca di esiti stretti: referendum che si chiudono su un filo, ballottaggi che cambiano città per qualche centinaio di voti, parlamenti senza maggioranze oceaniche. Non è solo aritmetica: è l’effetto di società più plurali, di identità politiche meno stabili, di informazioni che corrono più veloci della riflessione. In questo contesto, le maggioranze sottili non sono un incidente: sono la normalità. E la normalità chiede istituzioni allenate.

Cosa significa, in pratica? Significa distinguere tra vittoria e ragione. La vittoria dà il diritto di guidare; la ragione bisogna continuare a cercarla strada facendo, ascoltando chi non c’era al tavolo o c’era con riserva. Significa progettare politiche reversibili nei primi passi, con valutazioni ex post scritte prima di partire. Significa rendere visibili gli scambi legittimi e ridurre quelli opachi: se l’ago della bilancia ottiene una modifica, lo si scriva in chiaro e lo si discuta in pubblico. Significa proteggere la minoranza non come gesto di cortesia ma come garanzia di qualità: il contraddittorio migliora le leggi anche quando rallenta.

C’è poi un nodo culturale. Una cultura politica matura non celebra la “vittoria di misura” come impresa sportiva; la tratta come una responsabilità fragile. Le parole sono importanti: dire “abbiamo spaccato il Paese” dopo un 51–49 è una profezia che si autoavvera; dire “abbiamo ottenuto un mandato a fare X e lo faremo ascoltando su Y e Z” è una scelta di civiltà. La comunicazione non è orpello: è la guida del traffico in un incrocio affollato.

E quando lo scarto è minuscolo ma stabile nel tempo? Allora il sistema istituzionale diventa decisivo. Leggi elettorali che evitano sproporzioni eccessive, camere che parlano tra loro, strumenti di partecipazione che aprono il cantiere prima che arrivi la ruspa. La famosa “stabilità” non è un blocco di cemento: è una rete di nodi ben annodati. Più stretti i margini, più fitta dev’essere la rete.

Ci sono, infine, i nostri piccoli parlamenti quotidiani: un consiglio scolastico, un’assemblea condominiale, un’associazione. Anche lì si vince per un voto. Anche lì il dopo conta più del prima. È un allenamento prezioso. Chi sa stare in minoranza senza uscire dalla stanza e chi sa stare in maggioranza senza occupare la stanza porta un pezzo di democrazia nel luogo dove vive.

Un voto di scarto non è un risparmio: è un anticipo di fiducia. Va restituito con interessi fatti di rigore, ascolto, misura. La storia e il presente — da Prodi nel 1998 a Strasburgo nel 2025 — ci dicono che con uno si aprono diritti, cadono governi, si cambiano rotte. Il compito è farne buon uso, senza enfasi e senza paura. La soglia non è un traguardo: è l’inizio della responsabiltà.