La bellezza pretende coraggio

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“A volte viene da pensare che noi, italiani contemporanei, siamo eredi un po’ scriteriati, incapaci non solo di valorizzare ma anche di prenderci cura di ciò che abbiamo ereditato. E tuttavia, il legame tra l’Italia e la bellezza persiste”.

La mia riflessione di oggi parte da questo spunto limpido di Mauro Magatti, trovato in un ritaglio di giornale di qualche anno fa (Corriere della Sera, 10 dicembre 2015), che trovo ancora attualissimo.

Siamo cresciuti raccontandoci la solita fiaba: nessun Paese al mondo ha le nostre piazze, le nostre chiese, il mare, i monti, la cucina, le botteghe. E poi? Poi costruzioni brutte, paesaggi feriti, centri storici svuotati, periferie che urlano. Da anni viviamo in questa contraddizione: orgogliosi dell’eredità e distratti nella cura. La tesi è semplice: o la bellezza diventa pratica quotidiana, o resta cartolina per turisti.

Magatti lo ha detto con chiarezza: l’epoca dell’interesse individuale che si auto-assolve è finita. Clima, giustizia sociale, felicità, bellezza: la crescita o è impastata di queste dimensioni, o non è crescita, è rumore. Non basta “valorizzare”; bisogna generare. Emily Dickinson ci avvertiva: la bellezza non si fabbrica, si lascia avvicinare. Keats pure: bellezza e verità si tengono. Traduzione secca: se truffi sulla verità, la bellezza ti abbandona.

Come nasce, allora? Nasce dall’eccedenza, non dal calcolo corto. È un dono che si prepara con disciplina. I greci lo sapevano: Eros figlio di Poros (risorsa) e Penia (povertà). Significa che servono sia la tecnica che il limite, sia il talento che l’umiltà. Una società che si immunizza contro lo standard ripetuto, che sfugge agli schemi rigidi, che rifiuta l’occasione rapace: qui la bellezza può crescere e diventare risorsa.

Parliamo chiaro, allora.

Scuola. Se non educhiamo allo sguardo, tutto il resto è fumo. Non basta portare i ragazzi al museo: bisogna insegnare a leggere una piazza, un capannone, un ulivo, una foto di famiglia. La bellezza non è “bella”: è giusta quando mette in proporzione persone, spazi, funzioni.

Città. Basta cemento senza idea. Rigenerare significa cucire, non aggiungere volumetrie. Portare lavoro e servizi dove mancano, verde dove manca, artigianato dove può rinascere. Architettura come servizio, non come firma.

Giustizia. Non c’è bellezza dove c’è ingiustizia. Quartieri tagliati fuori, salari da fame, lavoro nero: sono brutture reali. Se vogliamo bellezza, mettiamoci la faccia nelle regole: appalti puliti, tempi certi, responsabilità di chi costruisce e di chi amministra.

Produzione. Il made in Italy non è nostalgia: è forma che incontra funzione. Innovazione con materiale povero, cura degli scarti, filiere corte, competenza. Qui la bellezza si misura in standard di qualità, non in aggettivi.

Qualcuno borbotta: “Sì, ma oggi l’Italia non è pronta”. Capisco lo scetticismo. Però i segnali ci sono: comunità che riaprono teatri, giovani che trasformano un laboratorio in un centro di quartiere, chi rigenera una cascina, chi inventa un’impresa nel rispetto dei luoghi, chi salva archivi e li restituisce al pubblico. Bagliori. Vogliamo farli diventare vocazione? Servono tre scelte adulte.

1) Mischiare i saperi. Spirituale e tecnologico, individuale e comunitario: basta contrapposizioni infantili. La bellezza nasce dove l’ingegnere ascolta l’educatrice, il sindaco ascolta l’urbanista, l’imprenditore ascolta il quartiere.

2) Investire senza garanzia. La bellezza chiede anticipo: tempo, risorse, fiducia. Non si pianifica al millimetro. Si mette in moto un cantiere e lo si accompagna. Il controllo arriva dopo, non prima.

3) Restituire. Chi trae valore da un luogo deve restituire al luogo: borse di studio, biblioteche di condominio, panchine sotto un tiglio. La bellezza non è un privilegio; è un bene praticato.

Smettiamola con l’idea che la bellezza “ci salverà” per inerzia. La bellezza pretende: chiede occhi puliti e mani sporche di lavoro. Ogni mattina bisogna lucidare lo sguardo: togliere pretese, rassegnazione, abitudini stanche. Non è un esercizio spirituale: è un metodo civile.

Il punto, alla fine, è politico nel senso più alto. Qual è il destino dei liberi? Creare le condizioni perché ciascuno di noi — non “i migliori”, non “i soliti” — possa contribuire alla bellezza comune. La libertà che non genera è capriccio. La libertà che genera costruisce futuro.

E allora torniamo alla frase di Magatti: eredi scriteriati, sì, quando ci dimentichiamo che l’eredità non si amministra, si rilancia. Ma quel legame tra Italia e bellezza resiste. Non per magia, per scelte. Tocca a noi: città per città, scuola per scuola, impresa per impresa, gesto per gesto.

Non c’è da aspettare un segno dal cielo. C’è da cominciare. Oggi. Con un quartiere da rammendare, un laboratorio da aprire, un archivio da condividere, una fabbrica da illuminare. E con una parola semplice, quando la bellezza — finalmente — ci viene incontro: grazie.