

Nel padiglione ragazzi senti subito due forze che tirano in direzioni opposte: la voglia adulta di proteggere e la necessità di dire il mondo com’è. In mezzo ci siamo noi, con libri che devono essere ponte e non recinto. Qui si capisce se un progetto per la scuola è vivo: non perché semplifica, ma perché rende dicibile la complessità.
La prima regola è guardare i libri in classe, non sul catalogo. Funzionano ad alta voce? Reggono la domanda “e tu cosa ne pensi?” senza trasformarsi in sermone? Se un albo, una graphic, un romanzo medio (9–12) o YA lascia spazio al lettore, allora educa. Se chiude tutto con una morale, addestra.
Temi caldi, quest’anno: guerra e spaesamento; clima; identità e amicizie che saltano; migrazioni; salute mentale; competenze digitali; cittadinanza. Il rischio sta nei bordi: o zuccheriamo o traumatizziamo. I libri migliori fanno un’altra cosa: danno strumenti. Ti offrono linguaggio, prospettive, piccole scene vere. Non promettono salvezze.
Cosa cerco sul serio davanti allo stand:
Voce: chi parla? Un io credibile, non il coro degli adulti.
Forma: albo con ritmo, romanzo con aria, graphic che usa il silenzio.
Verificabilità nella saggistica: fonti chiare, illustrazioni che spiegano.
Accessibilità: caratteri leggibili, interlinea generosa, contrasto pulito; audio/ebook con descrizioni quando c’è il digitale.
Paratesti utili: guida docenti, domande, mappe attività. Non schede punitivo-scolastiche, ma inviti al laboratorio.
Evito tre trappole: il libro-scudo (“lo adotto per non rischiare”), il libro-denuncia che fa pornografia del trauma, il libro-bandiera fatto per vincere un bando. La didattica ha bisogno di storie buone, non di manifesti.
Una cosa che si vede bene tra gli scaffali: la bibliodiversità. Piccoli e medi editori portano coraggio su temi difficili; i grandi sanno progettare filiere lunghe. L’equilibrio sta nell’incontro: cataloghi riconoscibili e spazi per chi tenta vie nuove. A scuola serve tutto: l’albo poetico che scioglie, la graphic che inchioda, il saggio che mette i dati sul tavolo.
Metodo semplice per non perdersi (vale per insegnanti, bibliotecari, educatori):
Un tema, tre età: scegli un filo (es. “perdita e ripartenza”) e portati a casa un albo 5–7, un romanzo 9–12, un YA.
Una forma non narrativa: un saggio illustrato o un “how-to” civico (media literacy, fact-checking, clima).
Un ponte fuori da scuola: libro che dialoga con museo, archivio, quartiere. La cultura, se esce dall’aula, resta.
La prova del nove per ogni titolo è il test delle dieci parole: riesci a dire in dieci parole perché è necessario oggi? Se no, forse è solo “carino”. Seconda prova: la domanda che apre. Esiste una domanda interna al libro che non puoi liquidare con sì/no? Se no, è materiale da riempitivo.
Per chi lavora nella filiera educativa, contano anche i materiali attorno al libro. Schede con attività orarie (30’, 60’, 90’), rubriche di valutazione leggere, percorsi interdisciplinari (storia, arte, scienze), proposte di lettura ad alta voce. Un editore serio li prepara. Un insegnante serio li adatta. Una biblioteca li rende replicabili.
E i ragazzi? Non sottovalutiamoli. Capiscono l’ironia, tollerano l’ambiguità, fiutano l’artificio. Se una pagina li guarda dall’alto, la mollano. Se li prende sul serio, restano. L’educazione alla lettura non è un favore che chiediamo: è un piacere competente che si costruisce.
Esco dalla fiera con una piccola mappa di lavoro:
Settimana 1: kit classe (3 titoli + 1 saggio + 1 guida docenti).
Settimana 2: un incontro con chi ha illustrato/scritto (anche online), non per l’autografo ma per il mestiere.
Settimana 3: laboratorio micro (lettura ad alta voce + tavola/disegno + discussione).
Settimana 4: restituzione pubblica in biblioteca di quartiere. La comunità educa, non solo la scuola.
La Buchmesse finisce, il lavoro comincia. Portiamoci via libri che aprono. E impegni semplici, misurabili. Ai ragazzi dobbiamo verità proporzionate e bellezza accessibile. Il resto è rumore.