Buchmesse – Book-to-Screen. Quando la carta chiede allo schermo di non tradirla

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Terza pagina · 17 Ottobre 2025 · ⏱ 5 min · ~884 parole

C’è un corridoio, in fiera, dove la carta cambia stato. Non è Hollywood: sono tavoli, calendari, caselle di posta che si aprono. Qui capisci in un’ora se la tua storia può camminare su uno schermo senza perdere l’anima. Non basta “piacere”. Serve metodo.
La prima verità è cruda: contano i diritti. Senza una chain of title pulita (chi possiede cosa, per quanto tempo, dove) non parte nulla. Se hai un libro: opzione sullo schermo chiara, territori, durata, esclusiva. Se lavori su persone reali: liberatorie. Se usi archivi: fonti, permessi, costi stimati. Non portarti dietro un’idea “bella” e basta: porta prove che la puoi girare.
La seconda verità: conta il formato. Lo schermo è un mestiere di misure. 90’, 3×60’, 6×45’, 8×30’. True crime, biopic, docu-serie d’autore, factual d’accesso, young adult. Ogni player ha gabbie diverse. Il tuo racconto deve saperci stare senza farsi schiacciare. Se per entrare devi tagliare l’ambiguità che lo regge, non è il formato giusto.
La terza: contano le persone. Un produttore serio non compra un sogno: compra una strada percorribile. Vuole vedere chi guida, con quali compagni e quali ostacoli avete già affrontato. Il resto sono selfie.
Il pitch che fa centro (90 secondi veri)
Arriva asciutto. Una frase di logline che respira: chi, cosa vuole, che ostacolo, perché adesso. Poi quattro chiodi, senza scivolare nel trattato:
Pubblico: a chi parla e perché si ferma a guardare.
Accesso: cosa hai già in mano (personaggi disponibili, archivi, location).
Forma: durata, numero episodi, tono visivo.
Prova: trenta-sessanta secondi di sizzle, o almeno un moodboard coerente.
Se ti chiedono il “perché proprio tu”, rispondi con una frase di esperienza concreta (una relazione, un archivio, un luogo), non con una dichiarazione d’amore al tema.
Documentario, serie, fiction: scelte che pesano
Il documentario vive di accesso e tempo. Senza entrature, diventa ricostruzione povera.
La docu-serie pretende spina dorsale narrativa: cliffhanger onesti, non trucchi.
La fiction chiede diritti larghi e responsabilità sul vero: niente “ispirato a” buttato lì per coprire buchi.
Lo dico piano: lo schermo semplifica. Il tuo compito è proteggere il grado giusto di complessità. Non esiste adattamento “fedele”: esiste adattamento onesto.
Archivi, musica, vita reale: dove cascano i progetti
Tre trappole che tornano sempre:
Archivi: i preventivi veri arrivano tardi; tu fatti un range, fonte per fonte, con priorità A/B/C. Segna i materiali sostituibili.
Musica: tempistiche e costi dei diritti possono fermare un montaggio. Prevedi piano B sonoro.
Life rights: parli di vivi? Servono accordi chiari su tempi di accesso e diritto di cronaca. Il ritiro a metà è un rischio da mettere a contratto.
Cosa mettere sul tavolo oggi
Non la bibbia da 40 pagine. Porta tre cose:
One-pager: logline, formato, pubblico, perché adesso, chi siete.
Mini-bibbia 5–7 pagine: arco, episodi in tre righe, personaggi, look&feel.
Proof: sizzle 45–60”, o una cartella di fotogrammi/mood coerenti.
Se il progetto è da libro, aggiungi una paginetta diritti: chi ha cosa, fino a quando, opzioni aperte.
Le domande giuste (e quelle che nessuno fa)
“Qual è il vostro slot reale per questa storia?” (durata, target, finestra temporale).
“Che rischi editoriali evitate a priori?” (ti evita perdite di tempo).
“Quale materiale volete tra 10 giorni per decidere?” (trasforma il follow-up in una scadenza).
“Se vi piace, qual è il vostro step deal?” (sviluppo, sceneggiatura, greenlight).
Evita la domanda “vi piace?”. Non sono lì per applaudire.
Soldi e tempi: la doccia fredda che serve
Mettiti in testa un ordine di grandezza: sviluppo piccolo oggi, decisione in 4–12 settimane, produzione in 6–12 mesi se va bene. Anticipi scaglionati, consegne vincolate. Nessun “pagamento magico subito”. Quando senti la parola “coproduzione”, chiedi chi porta cosa (cash, accesso, tax credit, distribuzione). Le amicizie non chiudono i buchi di budget.
Come non farsi sgonfiare
Due progetti, non dieci. La dispersione è il vero nemico.
Appuntamenti brevi: 15–20 minuti bastano se sai perché ci sei.
Note a caldo subito dopo: decisione binaria (procede/non procede) e prossima azione.
No al perfezionismo: meglio un sizzle imperfetto ma vero di un trailer patinato senza sostanza.
Un avvertimento che vale più di mille panel
Lo schermo ama la figura più della struttura. Se la tua storia vive solo di concetto, non regge la distanza. Porta persone, luoghi, oggetti che fanno racconto da soli. E ricordati che “più grande” non è sinonimo di “più giusto”. A volte un 3×30’ ben fatto dice più di un 8×50’ stiracchiato.
Uscire dalla sala con qualcosa in mano
Non una foto. Un calendario: entro 7 giorni invii materiali; entro 21 ricevi risposta; entro 45 firmi uno step o lasci andare. E un elenco di tre rischi del progetto con accanto la tua strategia di contenimento. Mostra che sai dove puoi cadere.
Se cerchi una regola d’oro, eccola: tenere aperta la porta tra libro e schermo senza svendere il libro. Lo schermo porta pubblico, soldi, tempo. Ma la pagina resta la tua sorgente. Difendila con contratti chiari e scelte estetiche nette. Quando ti chiedono di togliere l’ambiguità che rende vivo il racconto, la risposta è semplice: no.
Domani torneremo ai libri. Oggi il passaggio allo schermo ha fatto il suo dovere: ti ha costretto a scegliere che storia stai davvero raccontando.