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Il Racconto del sabato · 18 Ottobre 2025 · ⏱ 6 min · ~1122 parole

Il portiere mi disse che il teatro era chiuso. Io dissi che anch’io, in fondo, ero chiuso, ma avevo la chiave sbagliata. Mi fece entrare lo stesso. Nel corridoio dei camerini, odore di cipria e sigaro, si sentiva una risata di metronomo: ta–ta–ta, come se l’orologio ridacchiasse.

Bussai. La porta si aprì quel tanto che basta a far passare un sopracciglio.

«Cercavo il signor Marx.»

«Se cerchi il capitale, hai sbagliato secolo. Se cerchi Groucho, entra. Ma sappi che non accetto resi sulle delusioni.»

E’ seduto. La giacca gli pende addosso come un sipario stanco. Sul tavolo: un paio di baffi finti e un bicchiere con dentro l’acqua e il riflesso di un’altra epoca.

«Sono… Woody.»

«Albero o persona?»

«Dipende dalla stagione.»

Annuisce, soddisfatto dell’inutile precisione. Poi indica la sedia.

«Dunque, giovane albero, perché sei qui?»

«Perché quando ascolto le mie battute mi sembrano buone finché non le dico. Allora diventano idee che cercano un tutore legale.»

«Ottimo. L’insicurezza è la tua migliore agente. Ti trova contratti che la fiducia non oserebbe neppure leggere.»

Sorride, si tocca i baffi (quelli veri, questa volta). Io appoggio il taccuino. Lui appoggia lo sguardo.

«Il pubblico,» dico, «a volte ride per non pensare.»

«E altre volte non pensa per non ridere,» ribatte. «Il trucco è far fare entrambe le cose nello stesso respiro. Li cogli di sorpresa: mentre si difendono dal pensiero, scivolano nella risata.»

«Io temo di scivolare e basta.»

«Temere è igienico. Ma la paura è un pessimo capocomico: vuole sempre l’ultima parola, e gliela devi togliere.» Si versa dell’acqua. «Sai qual è la mia sola regola ferrea? Non mi iscriverei mai a un club che accetta tra i soci uno come me.»

Rido anche se la so. È come ascoltare un vecchio standard suonato dal suo autore: sai dove va la melodia, ma ci arrivi lo stesso con la pelle che si arriccia.

«E i principi?» chiedo. «Ne servono?»

«Certo che servono.» Si aggiusta la cravatta. «Questi sono i miei principi. Se non vi piacciono, ne ho altri.»

Silenzio. Il neon sfrigola come una battuta che non ha ancora trovato il verbo. Chiedo: «E quando la vita insiste? Quando ti mette al muro?»

Groucho fa due passi, si siede finalmente, e sembra abbassarsi l’intero Novecento.

«La vita ti mette al muro quando capisce che sai ballare. È gelosa. Tu, allora, balla lo stesso. Sposta il muro di mezzo passo con ogni battuta. Non lo abbatterai, ma lo farai indietreggiare abbastanza da far passare una piccola orchestra.»

«Io, l’orchestra, la sento, ma poi temo la cassa. Non quella del ritmo, quella della contabilità.»

«Ah, il bilancio. Il comico conta gli applausi come il droghiere i fagioli: a manciate e a orecchio. Ma non farti ingannare: la risata non è l’uscita d’emergenza; è la prova che l’incendio c’è stato e siamo vivi.»

Annuisco, come se avessi capito. Forse capisco a metà, che è l’unico modo onesto di capire.

«E la morte?» mi scappa. «Cioè, non per portare sfortuna al camerino, ma…»

«La morte è un critico con una recensione standard. Non importa quanto provi, lui usa sempre gli stessi aggettivi. Tu assicurati solo di aver provato abbastanza volte da farlo stancare.»

Mi guarda di traverso: «Tu hai un’idea fissa con la morte, vero?»

«Non ho paura della morte. Solo che non vorrei essere lì quando accade.»

Groucho ride. È una risata con esperienza, quella che ha pagato il biglietto più volte di noi.

«Vedi? Funziona perché ci mette al centro: non il destino, non la metafisica, proprio noi, piccoli. La risata è un microscopio che ingrandisce il ridicolo, non per umiliarci, ma per farci vedere dove stiamo inciampando.»

Si alza. Prende i baffi finti, me li porge. «Provali.»

«Non so se…»

«Provali. La timidezza è solo un cappotto troppo caldo: tienilo al braccio finché non piove davvero.»

Li indosso. Mi cadono quasi subito. Li riprendo. Stavolta restano. Mi guardo allo specchio: un ragazzino con i baffi del nonno e lo sguardo in affitto.

«Che cosa vedi?» chiede.

«Una maschera che chiede documenti alla faccia sotto.»

«Perfetto. Ricordati che la maschera non nasconde: evidenzia. Quando non sai come dire una verità, falla ridere. La verità ride volentieri, se la inviti con garbo.»

Si sente bussare alla porta. Una voce dice: «Cinque minuti, signor Marx.»

«Ah, i cinque minuti. Non c’è nulla di più lungo di cinque minuti in cui devi riuscire e nulla di più breve di cinque minuti quando stai riuscendo.»

Si volta verso di me. «Hai una domanda che non hai il coraggio di fare?»

Ne ho molte. Ne scelgo una che sta ferma: «Come si resta nuovi quando sei già vecchio per definizione?»

«Non resti nuovo. Resti onesto. La novità è un cappello; l’onestà è una testa. Cambia tutti i cappelli che vuoi, ma ti prego, portali su qualcosa.»

Appoggia la mano sul mio taccuino. «Scrivi meno, prova di più. E quando provi, prova meno, ascolta di più. Il pubblico ti scrive addosso il copione con la sua attenzione. Tu ribatti a tono.»

Mi restituisce i baffi. «Tienili. Vedi se ti ci affezioni. Ma non trasformarli in religione. Le religioni comiche falliscono sempre alla decima replica.»

«E se fallisco prima?»

«Meglio. Così risparmi tempo.»

La voce ripete: «In scena, signor Marx.»

Groucho prende il bastone. Si ferma sulla soglia, si gira come se scattasse una foto. «Giovane albero, ricordati: quando non sai se entrare da una porta, entra. Al massimo è un armadio. Ma potresti scoprire Narnia.»

Esco nel corridoio. Lui scompare dietro la luce. Rimango con il taccuino pieno di scarabocchi e un paio di baffi in tasca. Penso che la comicità sia una lingua madre imparata da orfani: ci adottiamo a vicenda, ogni sera, per un’ora. Poi ci salutiamo, facendo finta di niente, e domani ricominciamo da capo, come se la prima battuta non fosse mai stata detta.

Fuori piove. La città ha l’argento dei film in bianco e nero che non hanno ancora trovato il colore. Cammino, provo mentalmente una frase, la butto, ne riprendo un’altra, la setaccio. A un certo punto mi accorgo che sto ridendo da solo. Non perché abbia trovato la battuta perfetta. Perché la paura, per un attimo, ha perso l’ultima parola.

Disclaimer (non si sa mai…)

Woody è un personaggio di finzione, il mio alter ego narrativo. Si ispira nello stile e nelle atmosfere al suo omonimo americano, senza alcuna affiliazione, approvazione o rapporto. I dialoghi e le situazioni sono inventati o rielaborati a fini narrativi; eventuali riferimenti a persone o fatti reali servono al racconto e non intendono descriverli fedelmente. Marchi e nomi citati appartengono ai rispettivi titolari.

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