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Succede sempre. Mentre racconto ai ragazzi di una scuola del destino dei deportati nei campi di sterminio, qualcuno alza la mano e mi pone la stessa domanda: “Ma perché non si ribellavano? Erano molti più delle guardie. Potevano fuggire, no?”

La domanda non è ingenua. È umana. Viene da chi non riesce a immaginare cosa significhi essere ridotti a numeri, a corpi che si muovono su binari decisi da altri. Io la ascolto sempre in silenzio, perché non si risponde con statistiche a chi ti guarda con gli occhi aperti.

E allora racconto Sobibór.

Un giorno d’autunno del 1943,  il 14 ottobre, in Polonia, dentro un campo di sterminio dove quasi nessuno usciva vivo, accadde l’impensabile. Due uomini — Leon Feldhendler, ebreo polacco, e Aleksandr “Sasha” Pečerskij, ufficiale sovietico — decisero che era meglio morire provando a fuggire che restare lì ad aspettare. Non avevano armi. Non avevano un esercito. Avevano solo un piano fragile, costruito con pochi compagni, tra sguardi rapidi e frasi sussurrate.

Quel giorno uccisero undici SS, tagliarono recinzioni, aprirono un varco. Circa trecento persone corsero nel bosco. Cinquanta sopravvissero alla guerra. Gli altri vennero ripresi, uccisi, traditi. Ma Sobibór restò nella storia come la prova che una ribellione era possibile.

Perché non si ribellarono negli altri campi? Perché non erano un carcere. Erano una macchina. Appena arrivavi, ti dividevano da chi amavi, ti spogliavano, ti affamavano, ti mentivano. Ti toglievano perfino l’idea che potessi scegliere. Molti venivano uccisi entro poche ore. Gli altri erano logorati, isolati, messi gli uni contro gli altri. Non c’era “noi”. C’erano corpi dispersi, lingue diverse, paura ovunque. E attorno, reticolati, cani, torrette, pattuglie. La fuga non portava alla libertà: portava a giorni di caccia, fame e morte.

Quando i ragazzi ascoltano questo, alcuni abbassano lo sguardo. Qualcuno mormora “ma allora era già deciso”. E sì, era deciso. Gli assassini avevano pensato a tutto.

Eppure. A Sobibór, in mezzo a tutto questo, qualcuno ha detto no. Non un no eroico da film. Un no disperato, fragile, che sapeva di avere i minuti contati. E proprio per questo è rimasto inciso nella storia.

Non dobbiamo chiedere alle vittime perché non si sono ribellate.
Dobbiamo chiederci come sia possibile costruire un sistema così perfetto da spegnere la ribellione prima ancora che nasca.
E come mai, nonostante tutto, qualcuno abbia trovato la forza di accendere una miccia.

Sobibór non è un’eccezione romantica. È una ferita aperta. Ed è per questo che la si racconta ai ragazzi: perché non basta ricordare i numeri. Bisogna capire la macchina. E chi, anche solo per un attimo, ha provato a fermarla.