

Non so chi mi ha fatto più paura, negli anni: le macerie o il dopo. Le macerie si spalano. Il dopo ti entra nei polmoni e ci resta.
La domanda è semplice e spietata: come aiutare i bambini che hanno visto la guerra — Gaza, Ucraina, ogni guerra — a non diventare adulti nutriti di rancore?
Io non credo che la vendetta sia destino. È una cultura. E le culture si costruiscono, si disinnescano, si sostituiscono. Si può farlo male (e allora il rancore diventa eredità), oppure bene (e la ferita diventa cicatrice, non veleno).
Mi tengo stretti alcuni precedenti. Dopo il ’45, Germania e Giappone hanno riscritto manuali, parole, responsabilità. Lì si è lavorato sulla grammatica pubblica: musei, processi, educazione civica, niente scorciatoie. In Ruanda, dopo il genocidio, si è scelto di raccontare in piazza, guardandosi negli occhi: giustizia imperfetta, ma visibile. Nei Balcani, per anni, si sono lasciate libere le narrazioni opposte e impermeabili: quella è una fabbrica di memorie armate. In Irlanda del Nord, le scuole integrate e gli accordi hanno insegnato che la pace non è un sentimento: è un orario scolastico, un autobus dove siedi accanto a chi ieri evitavi. In Colombia, migliaia di ex bambini-soldato hanno avuto nomi, non solo cartelle cliniche: quando un ragazzo torna a chiamarsi per nome, ha già fatto un passo fuori dalla guerra.
Cosa impariamo? Che non basta dire “riconciliazione”. Serve renderla praticabile. I bambini hanno bisogno di prevedibilità prima che di discorsi: orari, scuola che riapre davvero, adulti affidabili, cure di base. Poi hanno bisogno di parole: per chiamare la paura, la rabbia, l’ingiustizia. Se non trovano parole, cercano armi. Hanno bisogno di luoghi misti: classi dove non si cresce solo con i “nostri”, cortili dove il gioco è una lingua franca. Hanno bisogno di arte: disegnare, suonare, recitare è un cavo di messa a terra. Hanno bisogno che la giustizia si veda: non slogan, ma processi, indagini, responsabilità. Hanno bisogno di memoria onesta: raccontare senza falsi equilibri—le vittime non sono mai equivalenti, ma i bambini non devono portare il peso al posto degli adulti.
E poi c’è il digitale, il nostro nuovo campo minato. I ragazzini vivono in una guerra che continua sul telefono: video di atrocità, umiliazioni, propaganda. Qui gli adulti devono essere scomodi: media-literacy, filtri, tempi di disconnessione, comunità che “regge” insieme. Se no, l’odio rientra dalla finestra dell’algoritmo.
Nessuna ricetta magica, lo so. Ma alcune scelte funzionano più di altre:
Sicurezza e routine prima della retorica. Una mensa in orario vale più di cento conferenze.
Scuola aperta e mista. La segregazione è un moltiplicatore di rancore.
Supporto psicologico di base, diffuso, non elitario. Normalizzare il chiedere aiuto.
Laboratori di parola e arte: scrittura, teatro, musica, sport. La rabbia prende forma e poi prende strada.
Giustizia riconoscibile: nomi, fatti, responsabilità. Senza, la memoria si incattivisce.
Riti civili: giorni, luoghi, gesti condivisi. Non per dimenticare, per ricordare insieme.
I limiti? Tanti. I traumi profondi non si “risolvono”, si gestiscono. La politica spesso usa i bambini come scudi narrativi. Le ONG arrivano e partono; i genitori restano con poco in mano e mille paure. E i tempi sono lunghi: un bambino di oggi farà sentire il peso del suo dolore quando avrà vent’anni. È lì che si vede se abbiamo fatto il nostro lavoro.
Perché parlarne su Canale Cultura? Perché è cultura, nel senso più concreto: le forme della convivenza. Non è un tema “laterale” alla guerra; è la guerra che finisce o ricomincia nei bambini. Possiamo farlo senza catechismi, con storie, dati sobri, voci di chi lavora sul campo. Possiamo far vedere la meccanica: come si passa dall’aula sfondata all’aula che salva.
La tesi è questa: la pace è infrastruttura emotiva e civile. Va costruita adesso, mentre la polvere non si è posata. Se aspettiamo la “fine del conflitto”, avremo perso il turno.
È un pezzo scomodo? Sì. Ma utile. E giusto.