Generare Bellezza: l’Italia che c’è ma non si vede – Mauro Magatti

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Generare Bellezza: l’Italia che c’è ma non si vede – Mauro Magatti

La generatività è cambiamento, innovazione e soprattutto pluralità. Qual è il destino dei liberi, se non creare le possibilità perché tutti noi possiamo contribuire alla bellezza del mondo?


“A volte viene da pensare che noi, italiani contemporanei, siamo eredi un po’ scriteriati, incapaci non solo di valorizzare ma anche di prenderci cura di ciò che abbiamo ereditato. E tuttavia, il legame tra l’Italia e la bellezza persiste” (Mauro Magatti, Corriere della Sera, 10 dicembre 2015).

Clima, giustizia sociale, felicità e ora anche bellezza. Sembra proprio che la crescita abbia bisogno di impregnarsi di nuove dimensioni. Perché il solo interesse individuale, da solo, non basta più. È in questo quadro più generale — segno che, in questo inizio di XXI secolo, qualcosa sta cercando di cambiare — che va inquadrata una riflessione sul futuro dell’Italia in rapporto alla bellezza. In effetti, se c’è qualcosa di cui, come italiani, ci sentiamo orgogliosi è proprio questo: al di là di tutto, non è forse proprio il bello l’eredità più preziosa che la nostra storia ci consegna? Amiamo dirci che nessun Paese al mondo è così ricco di tesori di tutte le arti; di città e piazze che sono veri e propri scrigni di bellezza; di tradizioni artigiane capaci di realizzare meraviglie; di sole, di mare e di montagne che tutto il mondo invidia. Così che quando ci mettiamo alla ricerca di un’immagine positiva del nostro Paese, diciamo di essere figli di una terra che proprio della bellezza fa il suo tratto distintivo: dove altro può trovare soddisfazione la nostra domanda di identità?

Per la verità, se ci guardiamo attorno, dobbiamo ammettere che non sempre sappiamo dimostrarci all’altezza di questa tradizione: quanto brutto abbiamo costruito e quanta bellezza abbiamo deturpato o semplicemente dimenticato? A volte viene da pensare che noi, italiani contemporanei, siamo eredi un po’ scriteriati, incapaci non solo di valorizzare ma anche di prenderci cura di ciò che abbiamo ereditato. E tuttavia, il legame tra l’Italia e la bellezza persiste. Anche l’opinione pubblica straniera continua a esserne convinta. Forse perché il Mediterraneo rimane la culla della civiltà, forse perché la moda e il made in Italy in questi ultimi decenni hanno fatto moltissimo per rinnovare questa tradizione in giro per mondo; o forse perché, nonostante tutto, i tanti turisti che arrivano nel nostro Paese non possono che rimanere incantati dalla bellezza iscritta sui muri e sulle pietre. Il generico compiacimento, però, non basta. Tanto meno oggi, nell’epoca in cui, in un mondo che si è fatto piccolo, occorre avere qualcosa da offrire, una ragione di distinzione. La bellezza, infatti, ci può salvare a condizione che non la pensiamo semplicemente come qualche cosa a nostra disposizione. Un patrimonio — come dice qualcuno il «petrolio» italiano — da sfruttare. Perché, quando vogliamo fabbricarla o possederla, la bellezza si rovescia nel suo contrario e diventa grottesca. Lo dice bene Emily Dickinson: La Bellezza – non si crea – È -La insegui, e si dilegua -Non la insegui, e rimane.

La bellezza viene solo da una eccedenza. Solo persone e comunità che sanno essere sovrabbondanti — cioè che non si accontentano solo dell’utile spicciolo — possono vivere con e di bellezza. La bellezza assomiglia molto di più ad un dono, ad un regalo inatteso che occorre saper aspettare, accogliere, custodire, coltivare. Anche se, per accorgersi della sua visita, occorre avere l’animo preparato. Nel mito greco, Eros è figlio di Poros (risorsa) e di Penia (povertá). È dal saper combinare queste due dimensioni che deriva la capacità di «generazione nel bello» di cui parla Platone nel Simposio. Il che significa che la bellezza può diventare risorsa solo in una società capace di non rinchiudersi dentro standard troppo ristretti, di sfuggire a schemi rigidi e ripetitivi, di andare al di là del particolare ottuso e dell’occasione rapace. Una società, cioè, che sa pensare la crescita come un processo che investe in tutte le dimensioni dell’umano. Nessuna esclusa: dallo spirituale al tecnologico, dall’individuale al comunitario. Che si sa povera, e per questo sa essere aperta e curiosa, senza chiudere i propri orizzonti, disponibile a lasciarsi fecondare; ma al tempo stesso anche ricca, capace di affacciarsi sull’infinito e sulla varietà del mondo per offrire qualcosa di sé. Se dunque l’Italia, nel secolo che viene, intende percorrere la strada della bellezza è necessario allora abbracciare un’idea di crescita integrale, che non elida le dimensioni più creative dell’uomo. Ma le intrecci. Nel quadro di un’idea pluridimensionale di valore.

Se, come scrive John Keats, Bellezza è verità, verità è bellezza, – questo solo sulla Terra sapete, ed è quanto basta – allora dobbiamo dirci che la bellezza è esigente. Richiede di stare al passo col tempo. Di conoscere e sapere trasfigurare la realtà. Di far crescere la sensibilità diffusa. Di alimentare una tensione. Dando vita ad un modello di crescita che non è ripetizione e standardizzazione, ma creazione e generazione, continue e diffuse. Solo una società che crede profondamente nelle capacità creative dell’essere umano – e che per questo decide consapevolmente nell’investire nel suo futuro senza troppe garanzie – può essere capace di generare bellezza. Per questo, se si vuole scommettere sulla bellezza, non si può rinunciare a essa quando si educa, quando si abita, quando si pratica la giustizia, quando si produce. Perché la bellezza ha bisogno di una semina abbondante, senza calcolo. Possibile solo quando si è convinti che non si possa vivere senza. Si potrebbe obiettare che è difficile credere che la società italiana sia oggi pronta a giocare una partita così impegnativa. Per molti aspetti è vero. E tuttavia, ci sono tanti segnali che dicono che lo sguardo dell’Italia sa ancora lasciarsi illuminare, diventando capace di trasformare meravigliosamente la materia coniugando forma e funzionalità, di realizzare innovazioni con materiale povero, di rimettere in gioco un antico tesoro mobilitando una intera comunità, di immaginare un futuro diverso in una periferia degradata. Bagliori, che possono però diventare vocazione. Perché ciò accada, occorre che lucidiamo i nostri occhi, all’inizio di ogni giorno nuovo, ripulendoli da pretese, rassegnazione, abitudini stanche, perché siano trasparenti alla bellezza che ci verrà incontro sorprendendoci. E preparandoci a dire «grazie».

Mauro Magatti, laureato in Discipline Economiche Sociali, insegna Sociologia alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano. Editorialista del Corriere della Sera e di Avvenire. È membro dell’Editorial Board dell’International Journal of Political Anthropology, del Comitato Scientifico di Sociologica e del Comitato di redazione di Studi di Sociologia e Aggiornamenti Sociali.
In Mauro Magatti pensare e vivere coincidono, l’impegno culturale diventa agire concreto e quotidiano, fatto di relazioni vive e generative davvero, come padre, docente, cittadino e studioso.

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