I social non inventano il complottismo, ma lo rendono performativo, monetizzabile e auto-rigenerante. La novità non è l’idea stramba in sé: è l’ecosistema che la nutre.
Terrapiattismo. Qui la smentita sperimentale è a portata di mano (navi che “spariscono” oltre l’orizzonte, voli intercontinentali, misure amatoriali), eppure la tesi regge perché offre identità: “noi che vediamo ciò che gli altri non vedono”. Il gruppo si cementa contro il “sapere ufficiale”. Ogni prova contraria viene riletta come parte del trucco. Su piattaforme video la negazione diventa spettacolo: “esperimenti” casalinghi, live, duelli con “esperti”. Non importa chi vinca l’argomento: conta chi cattura l’attenzione.
Scie chimiche. Una normale scia di condensazione viene interpretata come segno di un’intenzione nascosta. Il meccanismo è emotivo prima che logico: si parte da una paura (ambiente, salute), si selezionano indizi visivi (foto nel controluce, pattern nel cielo), si assume un regista onnipotente. Le smentite ufficiali spesso peggiorano la fiducia perché vengono da attori percepiti come parte del problema. Nei social l’immagine vale più del contesto: un timelapse “spettacolare” circola ore, la spiegazione fisica arriva tardi e annoia.
Dubbi sui vaccini. Tema diverso perché tocca il corpo e il rischio personale. Qui convivono tre livelli: domande legittime (efficacia, effetti avversi rari, trasparenza dati), narrazioni emotive (storie forti che sovrastano le statistiche) e veri e propri complotti (grandi coperture, “piani segreti”). I social favoriscono l’asimmetria della prova: un video di dieci secondi con un caso emotivo pesa più di un report di cento pagine. Si sommano bias prevedibili: disponibilità (ricordo ciò che colpisce), omissione (preferisco il “non fare” perché mi sembra più sicuro), sproporzione (a grandi eventi devono corrispondere grandi cause). La discussione deraglia quando la domanda “come riduciamo il rischio?” diventa “chi ci nasconde cosa?”.
Cosa aggiungono i social (tre leve).
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Algoritmi dell’attenzione. Premiano il nuovo, il conflittuale, il sorprendente. Una tesi estrema ottiene più interazioni di una spiegazione paziente.
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Formati e funzioni. Duetti, stitch, reaction: la confutazione stessa diventa carburante che rilancia l’originale. Anche smontare “porta traffico” alla tesi smontata.
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Mercato e status. Like, follower e micro-monetizzazioni trasformano l’“essere scettici” in carriera. Il creatore ha un incentivo a radicalizzare: ogni ritrattazione costa reputazione nella tribù.
Il motore cognitivo. Il nostro cervello cerca disegni dove c’è rumore (vedere pattern), conferma ciò che già pensa (seleziona fonti), sopravvaluta le storie forti rispetto ai numeri, sottovaluta l’ignoranza tecnica (illusione di capire un meccanismo che non sapremmo ricostruire). Il complotto offre una scorciatoia: ordina il caos, consegna buoni e cattivi, solleva dall’incertezza. Non è una “malattia dei creduloni”: è una risposta umana, resa virale da un ambiente che la ricompensa.
Architettura auto-difensiva. Le teorie che funzionano online hanno tre valvole di sicurezza: sono non falsificabili (spostano l’obiettivo quando arrivano prove contrarie), immunizzate (“se lo negano, è vero”) e usano un doppio standard (accettano indizi minimi a favore; pretendono prove impossibili contro). Così il confronto pubblico diventa teatrale: non si cerca più di capire, ma di manifestare appartenenza.
Differenza tra scetticismo e complottismo. Lo scettico formula ipotesi che potrebbero essere smentite, espone dati e limiti, aggiorna le conclusioni. Il complottista inverte l’onere della prova, interpreta ogni lacuna come disegno, non dichiara mai la condizione che lo farebbe cambiare idea. I social erodono il confine perché premiano l’atteggiarsi da “controllori del potere” senza i costi del metodo.
Perché attecchiscono le tre narrazioni.
– Terra piatta: ribalta simbolica contro l’élite del sapere, facilità di “esperimenti” fai-da-te, comunità coesa.
– Scie chimiche: visualità forte, paura ambientale, sfiducia sedimentata verso istituzioni e industria.
– Vaccini: decisione personale irreversibile percepita come rischiosa, casi rari ma emotivi, cattiva comunicazione dei rischi (percentuali astratte senza contesto umano).
Che cosa funziona meglio del “debunking urlato”. Non basta dire “sbagli”: occorre mostrare il metodo (come sappiamo ciò che sappiamo), pre-bunking (spiegare in anticipo i trucchi retorici più comuni), trasparenza sugli errori (correggere in pubblico rafforza fiducia), messaggeri credibili in contesti locali, esperienze pratiche (piccoli esperimenti, visite, dati replicabili), narrazione che accompagni i numeri. La chiave è restituire controllo a chi ascolta senza regalare l’illusione del controllo totale.
In sintesi. Terrapiattismo, scie chimiche e complotti sui vaccini prosperano non perché “la gente è peggiorata”, ma perché viviamo in un sistema dove attenzione, identità e sfiducia trovano un circuito chiuso. Il compito culturale non è solo smentire, è riaprire il circuito: rallentare, far vedere i passaggi, accettare i dubbi legittimi e togliere ossigeno alle certezze infalsificabili. È più faticoso dei like, ma costruisce cittadini.






