Se entriamo in una libreria, la sezione di storia ci accoglie sempre con una certezza: scaffali colmi di volumi su Hitler, Mussolini, il nazismo, il fascismo. Non importa l’anno, l’editore, l’angolo del mondo: questi due fenomeni del Novecento restano i più raccontati, i più venduti, i più consumati. Perché? Perché proprio loro, più di Carlo Magno, più delle crociate, più persino dell’antica Roma?
La risposta facile è che si tratta della storia più vicina a noi. I nonni e i bisnonni di molti hanno vissuto quelle dittature; le città europee conservano ancora ferite visibili, piazze, architetture, lapidi, cicatrici. Ma la vicinanza temporale non basta: anche la Guerra fredda è vicina, eppure non ha lo stesso appeal.
L’attrazione del male
Una prima spiegazione sta nella fascinazione universale per il male assoluto. Hitler, le SS, la Shoah: figure e simboli che incarnano la caduta dell’umanità, e che per questo sembrano offrire un dramma eterno, simile alle grandi tragedie classiche. Il male, quando è radicale e riconoscibile, cattura. Ci inquieta, ma allo stesso tempo ci rassicura: possiamo identificarlo, distinguerlo, puntare il dito.
La potenza della messa in scena
Il nazismo e il fascismo hanno avuto un’abilità unica nel costruire immaginario. Divise, parate, architetture monumentali, simboli visivi potenti. Un materiale perfetto per libri, documentari, film, serie televisive. La storia del comunismo sovietico, altrettanto drammatica, non offre la stessa immediatezza estetica: niente divise nere, niente aquile imperiali, niente adunate di massa con scenografie da teatro wagneriano.
La semplificazione narrativa
C’è poi un fattore di narrazione. La Seconda guerra mondiale si presta a uno schema “chiaro”: da una parte il male, dall’altra il bene che alla fine vince. È una storia epica, che non ha bisogno di troppi chiaroscuri per essere raccontata. È più difficile spiegare al grande pubblico i compromessi dell’età napoleonica o le contraddizioni dell’Impero austro-ungarico.
Un consumo che rischia di diventare routine
Eppure questa centralità rischia di trasformarsi in abuso. Il moltiplicarsi di documentari con titoli seriali (“Hitler’s War”, “I segreti del Führer”, “Le donne di Mussolini”) ha creato un mercato che spesso si accontenta di ripetere, di semplificare, di sfruttare la curiosità morbosa senza aggiungere conoscenza. Si rischia così di appiattire la memoria, riducendo eventi complessi a un prodotto di intrattenimento.
La sfida: allargare lo sguardo
Non si tratta, ovviamente, di smettere di studiare fascismo e nazismo. Sono stati la tragedia fondativa del Novecento, e non capire quel passato significa non capire noi stessi. Ma forse, oggi, la vera sfida è un’altra: usare quella stessa passione di lettori e spettatori per aprire finestre su storie meno frequentate ma altrettanto decisive. La storia delle rivoluzioni industriali, delle migrazioni di massa, dei movimenti culturali che hanno plasmato il nostro presente.
Una conclusione amara ma necessaria
In fondo, continuiamo a tornare al fascismo e al nazismo perché parlano di noi. Parlano delle nostre paure, delle nostre fragilità democratiche, della tentazione di cercare soluzioni semplici in tempi difficili. Non è un caso se, quando la politica sembra in crisi, le librerie ripropongono cicli infiniti su Hitler e Mussolini: è come se la società intera, rileggendo quelle pagine, cercasse di vaccinarsi contro il ritorno del male. Ma non basta guardare sempre allo stesso virus: occorre studiare anche ciò che cresce nel silenzio, lontano dai riflettori.






