Dorothee Elmiger. La letteratura che non consola
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Le Interviste impossibili · 23 Ottobre 2025 · ⏱ 4 min · ~722 parole

Omegna, mattino lattiginoso sul lago. In una classe vuota del vecchio edificio comunale c’è gesso nell’aria e un odore di legno bagnato. Appoggio taccuino e penna sul banco. La porta si apre senza rumore: entra un uomo minuto, cappotto scuro, occhi che sorridono prima della bocca. Prende il gessetto, scrive “fantasia”, poi si volta: «Cominciamo? Ma lei non mi interroghi: interroghiamo il mondo».

Q. Maestro, perché la fantasia è un affare pubblico?
A. «Tutti gli usi della parola a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo». La fantasia è parola che si allunga: serve a nominare cose che non vediamo ancora e a smontare quelle che ci sembrano naturali. Senza questa ginnastica, la realtà diventa destino.

La finestra dà sul lago. Sulle piastrelle, un riquadro di luce; lui ci passa dentro come fosse un palcoscenico minimo.

Q. Il suo “binomio fantastico” è diventato proverbiale. Come funziona davvero?
A. Prenda due parole lontane — “cane” e “armadio”, “luna” e “patata”. La distanza produce scintille. Non si tratta di trovare l’idea geniale: si tratta di mettersi nella condizione di trovarne molte, anche sbagliate. La regola è semplice: prima lasciare correre, poi scegliere; prima libertà, poi disciplina.

Q. E l’errore? A scuola resta un marchio.
A. L’errore è un alleato. È la prova che abbiamo osato. Se non sbaglio, non imparo: ripeto. Nelle mie filastrocche gli sbagli aprono porte — un plurale che stona, una rima che scivola — e da quella fessura entra aria nuova. L’errore educa al coraggio.

Il gessetto si spezza; lui conserva anche il pezzetto piccolo. «Con i frammenti si fanno castelli», dice quasi tra sé.

Q. Lei è stato maestro, giornalista, direttore de Il Pioniere, scrittore. Quando ha capito che i bambini erano i suoi veri critici?
A. Quando li ho ascoltati. I bambini non chiedono favole “belle”: chiedono storie che lavorano. Se una storia non apre domande, è un soprammobile. In classe, il più timido ti smonta un finale meglio di un accademico: basta dargli tempo e fiducia.

Q. 1970, Premio Andersen: l’Italia scopre che la letteratura per l’infanzia è letteratura. È cambiato qualcosa davvero?
A. I premi aiutano gli scaffali, non i cuori. Cambia quando una maestra decide di fare laboratorio invece di dettato, quando un genitore legge per piacere e non per dovere, quando una città apre biblioteche dove si sta bene. Lì la letteratura smette di chiedere permesso.

Un refolo muove i fogli. Sento l’acqua contro il muraglione. Rodari guarda l’orologio come chi non ha fretta.

Q. Lei ha fatto politica con le storie, senza fare propaganda. Dov’è il confine?
A. La propaganda vuole risposte; la letteratura coltiva domande. Io ho avuto idee chiare, certo. Ma in una fiaba non si marcia: si conversa. Se il lettore sospetta che lo sto tirando per la giacca, mi abbandona — e fa bene.

Q. Oggi i bambini vivono anche nello schermo. La “grammatica della fantasia” regge nell’era digitale?
A. Regge se la prendiamo sul serio. Un videogioco può essere un laboratorio di mondi; un telefono può essere una tipografia tascabile. Il problema non è lo strumento, è la povertà di uso. Serve sempre la stessa triade: curiosità, regole del gioco, tempo per sbagliare.

Q. Che scuola vorrebbe vedere domani mattina?
A. Una scuola laboratorio, dove la lezione nasce da un problema concreto. Una scuola che fa pace con la realtà: quartiere, giornali, scienza, lavoro. Dove la lettura non è interrogazione ma esplorazione, e la matematica si impara misurando il cortile. E dove l’insegnante è artigiano, non burocrate.

Si ferma, come se stesse scegliendo una rima. Poi aggiunge: «E una scuola che rispetti il silenzio: anche quello inventa».

Q. Se dovesse lasciare tre strumenti a un’insegnante di prima elementare?
A. Un taccuino grande, una scatola di parole ritagliate, un tempo fisso ogni giorno per inventare insieme. Con questi tre, passa la voglia di copiare e viene voglia di provare.

Prima di uscire, Rodari riscrive “fantasia” sotto forma di somma: curiosità + coraggio + cura. Mi lascia un compito: prendere due parole lontane, oggi stesso, e farle incontrare con una classe, un gruppo, una redazione. Niente gare, niente voti: dieci minuti di libertà e altri dieci di scelta. Tre verbi-lascito: inventare, sbagliare, condividere.

Chiudo il taccuino. Fuori il lago è fermo; dentro, la parola continua a muoversi.