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Il creazionismo non cresce perché l’America “torna indietro”, ma perché un pezzo di società usa un racconto originario per difendere identità, scuole e potere locale. È una storia politica prima che teologica.

Scena 1 — Dayton, Tennessee, 1925

Aula del tribunale, luglio. Il processo Scopes: un giovane insegnante accusato di aver spiegato Darwin. William Jennings Bryan, tre volte candidato alla presidenza, guida l’accusa; Clarence Darrow difende. La sentenza condanna Scopes a una multa simbolica. Sui giornali vincono i moderni, ma nel Paese resta un sentimento: “la città umilia la nostra fede”. Qui nasce la frattura tra scienza nazionale e costumi locali. Il punto non è la biologia, ma chi decide cosa si insegna ai figli.

Scena 2 — Anni ’70–’80: il ritorno dei movimenti religiosi

Dopo le battaglie su scuola, aborto, diritti civili, la Moral Majority porta gli evangelici nel cuore della politica. Cambia la tattica: non “bibbia contro microscopio”, ma pluralismo curricolare. “Insegniamo anche il ‘disegno intelligente’”. Dal lessico teologico si passa al gergo giuridico: “bilanciare”, “pari tempo”, “neutralità dello Stato”. In molti distretti scolastici il creazionismo rientra dalla finestra come “alternativa”. È un’operazione di egemonia culturale: selezionare i contenuti che fanno comunità.

Scena 3 — 2005 e oltre: tribunali e piattaforme

Kitzmiller v. Dover (Pennsylvania): un giudice federale stabilisce che il “disegno intelligente” è di natura religiosa, quindi fuori dal programma di scienze. Sulla carta è una sconfitta. Nella pratica, l’arena si sposta: homeschooling, scuole charter, musei tematici, media digitali. L’algoritmo sostituisce il pulpito. Il creazionismo sopravvive come ecosistema: manuali, camp estivi, canali YouTube, think tank legali. La domanda non è “è vero?”, ma “è nostro?”.


Il meccanismo

  1. Federalismo educativo. Negli USA i distretti e gli Stati hanno margini decisivi. Le aule diventano terreno di rappresentanza identitaria.

  2. Sfiducia accumulata. Crisi, scandali, pandemia: la “verità ufficiale” appare negoziabile. Una storia totale (“In principio…”) offre orientamento morale, non solo spiegazione naturale.

  3. Linguaggio dei diritti. La richiesta di “pari dignità” curricolare trasforma una tesi confutabile in una rivendicazione civile: togliere il creazionismo sembra togliere voce.

  4. Mercato dell’attenzione. La scienza procede per ipotesi, margini d’errore, revisione. Le piattaforme premiano narrazioni nette, eroi e antagonisti.

  5. Capitale sociale. Chiese, famiglie, radio locali: una rete capillare che sostiene materiali, cause legali, borse di studio. Non è improvvisazione, è organizzazione.

Due equivoci da sciogliere

  • Non è analfabetismo. Tra i creazionisti ci sono laureati, imprenditori, tecnici. È una scelta di campo valoriale.

  • Non è solo religione. In gioco c’è la sovranità culturale: chi educa i figli; quali istituzioni meritano fiducia; quale idea di libertà prevale, quella del metodo o quella dell’identità.

Cosa insegna la lunga durata

Ogni “ritorno” al creazionismo avviene in momenti di accelerazione moderna: anni ’20 della radio e dell’urbanizzazione; anni ’80 della televisione politica; anni 2000 del web sociale. La tradizione reagisce quando la modernità corre. Non è un paradosso: è autodifesa simbolica.

Obiezioni e limiti

  • La maggioranza degli americani accetta l’evoluzione in qualche forma.

  • Esistono teologi e scienziati credenti che distinguono senso e metodo senza sovrapporli.

  • Il rischio più grande non è il racconto biblico in sé, è l’idea che tutte le affermazioni abbiano lo stesso peso epistemico: se crolla questa distinzione, crolla il ponte tra ricerca e decisione pubblica.

Scenari (5–20 anni)

  • Divergenza dei curricoli. Alcuni Stati allineati agli standard scientifici globali, altri con cornici “critiche” che svuotano l’evoluzione.

  • Musei e parchi esperienziali. Tecnologia immersiva al servizio di cosmologie alternative: la sfida si gioca sul terreno emotivo.

  • IA come “maestro privato”. Può chiudere le bolle o aprirle: dipende da come progettiamo il dialogo, se per confermare o per far vedere come cambiano le ipotesi quando cambiano i dati.

Che cosa può fare Canale Cultura

  • Raccontare il metodo come storia umana: esperimenti, errori, revisioni, vincitori e sconfitti.

  • Dare voce ai luoghi: un consiglio scolastico di contea, un museo del creazionismo, un laboratorio universitario. Non “campi opposti”, ma biografie in conflitto.

  • Separare senza ferire: in classe il metodo resta fermo; nelle comunità di fede si leggono i testi nella loro forza simbolica. Il confine va spiegato, non urlato.

  • Mostrare l’utilità pubblica della scienza: ponti che non crollano, vaccini, agricoltura, clima. Quando la scienza serve alla vita quotidiana, la fiducia regge.

Queste riflessioni ci fanno capire che il creazionismo americano non è un fossile. È un organismo politico-culturale che si adatta all’ambiente. La risposta non è l’ironia facile, ma un’educazione che rispetti le persone e difenda il peso delle prove. Solo così il metodo smette di sembrare un’imposizione e torna a essere un bene comune.

 

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Con questo articolo contribuiamo alla Terza pagina di Canale Cultura: lo spazio dedicato alle idee e alle riflessioni che fanno crescere, sulla scia della tradizione culturale dei grandi quotidiani italiani.